Opinioni

«Liberaci dal male». Preghiera sull'abisso

Marina Corradi domenica 27 febbraio 2011
«Mio, l’hanno trovata». Cinque minuti dopo il primo flash d’agenzia la notizia già corre sulle radio private e sul web; chi ascolta telefona alla madre, o all’amica più cara: quella bambina, l’hanno trovata. L’hanno trovata, dopo averla tanto cercata, a pochi chilometri da casa; in un campo d’erba incolta, in una di quelle terre di nessuno che sono le campagne là dove le insidiano i primi capannoni industriali. Nemmeno sepolta, ma buttata tra le erbacce come una cosa, Yara con i suoi gentili tredici anni; e cresce e geme nel pensarci il sentimento di strazio e di offesa. L’hanno gettata in un campo, come un niente. Pensi a sua madre. Fino a pochi giorni fa diceva che sentiva la figlia viva. Ma i vestiti sono gli stessi della sera della scomparsa: l’agonia forse è durata poco, e questa è l’unica povera consolazione che la ragione può offrire, in una storia feroce. A casa la sentivano viva, ma era un abbaglio del desiderio, o forse quell’invisibile legame che ci tiene vicini a chi amiamo, anche dopo la morte. Tutto probabilmente era già accaduto in una notte: tutto già compiuto. Questi tre mesi sono stati un’aggiunta ulteriore di tormento; ogni mattina a scavare più aspra la domanda, e la preghiera. Come se il male compiuto nell’oscurità non potesse venire alla luce; come in un travaglio stentato che non voleva compiersi nella sua intollerabile deformità. Quanti hanno pregato, per Yara. Non penseranno alcuni, oggi, che le preghiere sono state inutili, e un Dio lontano ha volto la faccia altrove, superiore  e distante dai nostri destini?  (Anche questo dubbio, che contrista i vecchi e rode i giovani, anche questo si allarga da quel campo nel Bergamasco, come un vapore amaro). Sotto alle luci delle fotoelettriche, nel lampeggiare dei fari blu sulle auto dei carabinieri che a intermittenza schiariscono e oscurano come maschere le facce attonite dei presenti. Forse, ipotizza qualcuno, il corpo non era lì da molto, l’avrebbero scoperta prima, altrimenti, i pescatori del Brembo. Forse lì Yara è stata portata da poco, e quasi per farla finalmente trovare, tre mesi dopo; come se neanche l’assassino più sopportasse il non compiersi ultimo del suo parto maligno, come se neanche lui, in un soffio di ultima pietà, reggesse più, la sera, il pensiero di quel padre e quella madre. Forse. Ci diranno, sapremo. Sapremo poi magari anche quando, dove, e chi è stato. Ci mostreranno la faccia di un uomo come tanti, simile a noi: e quando lo interrogheranno nemmeno lui riuscirà a spiegare esattamente cosa è stato e perché, quella sera. E quell’uomo, verremo a sapere, ha come tutti una madre e una famiglia, e magari dei figli, e ancora meno riusciremo a capire come ha fatto, e come ha potuto. L’ultimo mistero di Brembate non è nemmeno il nome dell’assassino, ma è cosa lo abbia ghermito una sera e fatto diventare così feroce, da non riconoscere in quella bambina una che somigliava a sua sorella. L’ultimo mistero è questo male che abbiamo addosso, e tanto più quanto ce ne crediamo salvi; e quanto possa sugli uomini, e di che sia capace. Amiamo dimenticarci, del nostro originario male. Dimenticarcene fino a non capire più che bisogno c’era di un Dio che morisse in croce per salvarci. L’abisso aperto su un campo in questo freddo inizio di primavera ci ricorda quanto profondo è il male. E non capiamo e pretendiamo di capire, e dubitiamo di Dio davanti a una bambina uccisa. Servisse almeno, questo strazio, a suscitare una disarmata preghiera, parole umili di figli che i nostri figli non devono disimparare: liberaci, Padre, dal nostro male.