All'Angelus il Papa ha citato Edith Stein: «Più si fa buio intorno e più dobbiamo aprire il cuore alla luce che viene dall’alto», scriveva nel 1938 dal Carmelo di Colonia la santa morta ad Auschwitz. E’ un pensiero, quello di suor Teresa Benedetta della Croce, che nella sua essenza ritorna in questi mesi nelle parole del Papa. Benedetto XVI ci parla spesso del buio. E della luce. Di un buio e di una luce che paradossalmente si accompagnano; di una luce che viola anche il fondo del buio più impenetrabile.Anche a Torino, in Duomo, dopo lunghi minuti in ginocchio solo davanti alla Sindone, aveva meditato su quella che ha chiamato «icona del Sabato Santo», sul tempo «breve ma infinito» della morte di Dio: «L’oscurità di quel giorno interpella tutti coloro che si interrogano sulla vita, in particolar modo interpella noi credenti. Anche noi abbiamo a che fare con questa oscurità».Noi come tutti. E forse anche più noi di chi non crede in niente, e procede con cinica rassegnazione. L’oscurità, il male, il dolore, provocano più fortemente chi crede nella promessa di un Dio buono.Ci provocano anche oggi, benché non siamo in tempi di guerra o di lager. Benché viviamo in pace, e non ci ricordiamo la fame. Ma è come se tra noi si allargasse una penombra. Quanto fatichiamo a ricordarci di un bene comune, e di una condivisa speranza. Sembra che tutto sia pagato, comprato, corrotto. Sembra che niente più sia gratuito, né innocente.Anche questa è oscurità. Non quella sanguinosa e annichilita del tempo della guerra. Una oscurità «lieve» invece, a volte più simile a una farsa che a un dramma; quasi, a guardarla distrattamente, «gaia»; e però in questa penombra un tarlo rode la nostra speranza. È buio anche un mondo in cui non si ha più fiducia negli altri, e – senza magari dirselo – si pensa di vivere, e cavarsela, per sé soli.In questa nostra ombra non tragica, ma che avviluppa e avvilisce, e soffoca il coraggio, il Papa domenica è tornato a parlarci del buio con le parole di Edith Stein. Che, ebrea di nascita, nel 1938 ben vedeva, nella lucida profezia dei santi, quali tenebre si andavano addensando in cielo e in terra. E tuttavia parlava di una luce cui, in quel buio, aprire di più l’anima. Un mese fa, a Torino, Benedetto XVI si è fermato davanti alla Sindone, icona di morte e martirio che pure milioni di uomini sono andati a venerare. «Il mistero più oscuro della fede è nello stesso tempo il segno più luminoso di una speranza che non ha confini», ha detto.Dov’è la luce? Dove non la cercheremmo, dove non vorremmo andare: al fondo del buio. È la stessa cosa che Benedetto XVI ha spiegato chiudendo l’anno sacerdotale. Quest’anno ferito dalla coscienza del male compiuto proprio da dei sacerdoti. Buio e dolore dunque nella Chiesa. Ma questo buio serviva a «diventare grati per il dono di Dio», ha detto il Papa: per quel dono in vasi di creta, più forte però e gratuito e perpetuo di ogni miseria degli uomini. E sembra che Benedetto ultimamente ci insegni, come ai bambini, a non avere paura del buio. A guardare invece a una misteriosa simmetria: più profonda è la notte, più grande è l’attesa dell’alba. Nella antica sapienza della Chiesa: che festeggia la nascita di Cristo a pochi giorni dal solstizio d’inverno, quando il giorno è debole e breve, e le notti interminabili. Nel fondo del buio, quando gli uomini tremano e dubitano, l’avvento della luce. Come se la oscurità che ci sgomenta fosse vuoto, o domanda, finalmente, che attende di essere colmato.