«Quaresima»: nei ricordi di chi ha ricevuto una educazione almeno formalmente cristiana, questa parola porta un richiamo alla sobrietà, alla mortificazione, ai "fioretti". «Quaresima»: il viola dei paramenti, i digiuni, e un incerto tendere a una confusa "povertà". Senza però che fosse del tutto chiaro, almeno alle generazioni del Dopoguerra, che cosa era davvero, questa povertà, e perché si dovesse, verso la Pasqua, cercarla – quando nel resto dell’anno si faceva ogni sforzo per scongiurarla, o per nasconderla, come una vergogna. Per questo il messaggio del Papa per la Quaresima è una forte catechesi per tutti i cristiani, e specialmente per noi cresciuti tra il ’68 e l’avvento della tv, cristiani a volte lacunosi, rimasti magari fedeli a forme di cui non ricordiamo più la sostanza.Che cos’è allora la povertà che ci viene indicata, e quale bellezza porta in sé? Dalla seconda lettera ai Corinzi: «Si è fatto povero per arricchirci con la sua povertà». Parola densa, e misteriosa: come è possibile arricchire gli altri, facendosi poveri? Cristo poi, padrone, secondo Paolo, di «impenetrabili ricchezze», che bisogno aveva di farsi povero? Lo scopo, avverte Francesco, non era «la povertà in se stessa», non dunque un gusto pauperista: ma era invece, nascendo Cristo nella carne, la sua volontà di farsi uomo come noi, di portare con noi i nostri dolori. La povertà di Cristo è il suo nascere bambino. Sarebbe stato più facile, certo, e ad effetto, un Dio che sollevasse i suoi amici con i poteri di un supereroe. La strada scelta da Cristo è invece quella di accompagnarci nei nostri lenti, affaticati passi. Questo dunque è la povertà cristiana: non un gusto sterile di mortificazione, ma un essere con l’altro («amare – dice Francesco – è condividere in tutto la sorte dell’amato»). Né, ha aggiunto, il metodo della povertà si è esaurito con Cristo, e noi invece oggi possiamo salvare il mondo con adeguati mezzi umani (tentazione eterna e radicale: fare anche del bene, fare il meglio, credendo con ciò di non aver bisogno di Cristo). Il "metodo" invece resta sempre uno solo, spiega il Papa: «La ricchezza di Dio non può passare attraverso la nostra ricchezza, ma sempre e soltanto attraverso la nostra povertà, animata dallo Spirito di Cristo». E chi ascolta, zittisce. Non cerchiamo ogni giorno, magari anche con ottime intenzioni, successo, potere, certezze? Eppure, ci dice il Papa, è nella povertà, nel confidare in Dio come un bambino nel padre, che passa la salvezza. (Torna in mente Emmanuel Mounier: «Dio passa attraverso le ferite»). Che capovolgimento, che orizzonte rovesciato. Semplicemente, Vangelo: che però a ogni generazione va, con parole antiche e nuove, annunciato. Ma la povertà, ha aggiunto Francesco, quando manca di speranza e di solidarietà si chiama «miseria». C’è la miseria materiale, la fame, la malattia, che naturalmente i cristiani sono chiamati a generosamente soccorrere. C’è la miseria morale di chi vive nel vizio; e c’è la miseria spirituale, di chi rifiuta l’amore di Dio. E quest’ultima razza di miseria è quella di cui meno fra noi si parla: la miseria dei ricchi, di certe case lussuose e perfette dove pure, come entri, manca il fiato. Che cos’è?, ti domandi; è che lì, dove tutto è lauto e garantito, manca la domanda, manca la mano che mendica Cristo. E l’aria allora si fa acre, e il silenzio, fra una parola e l’altra, è duro e opaco come cemento. Di quest’ultimo tipo di miseria sono piene le città d’Occidente. Roma, Parigi, Londra, le più belle, le più fortunate, quali sacche di miseria svelerebbero, a saper guardare, nelle stanze delle famiglie disgregate, dei figli senza padri, dei vecchi senza nessuno. "Questa" miseria, è quella che più ci riguarda e ci spaventa. Benché, ha concluso il Papa, ci sia in realtà una sola, grande miseria: non vivere da figli di Dio, e da fratelli di Cristo.Penetrassero, queste parole, in qualcuna almeno delle case confortevoli e eleganti, in cui si pensa di non avere bisogno di Dio. Come un soffio di "ricca povertà" nella povera ricchezza di chi si crede padrone del mondo – e figlio, invece, di nessuno.