Nel fiume di commenti al caso Fiat, un tema è rimasto quasi del tutto in ombra e merita invece di essere posto all’attenzione dell’opinione pubblica. Al di là delle ragioni, anche degne di considerazione, che hanno determinato la «svolta» (prima fra tutte la preoccupazione di reggere la concorrenza straniera), non vi è dubbio che l’esito finale della vicenda, soprattutto in termini di immagine, sia una ulteriore sottovalutazione del lavoro manuale. Esso sarà – sembra – meglio pagato, ma sarà più condizionato dall’impresa, più duro, più stressante. Quale sarà l’attrazione che in futuro – per una sorta di effetto a cascata che sarebbe responsabile valutare – il lavoro in fabbrica eserciterà sui nostri giovani?È ben noto il paradosso italiano: la disoccupazione giovanile coesiste, ormai da decenni, con mancanza di mano d’opera in settori-chiave dell’economia e in particolare nell’agricoltura, nei servizi di cura alla persona, nella pesca, e così via... Per fare solo un esempio, se gli italiani e le italiane volessero dedicarsi al lavoro di cura (e diventare, per intenderci, "badanti") gran parte della disoccupazione giovanile verrebbe meno. Ecco dunque il problema che sta dietro il referendum di Mirafiori: vi è ancora posto, in Italia, per un lavoro industriale capace di incontrare le aspettative dei giovani? O corriamo il rischio che le fabbriche di domani diventino quello che sono diventati non pochi alberghi di oggi (direttore, personale di fascia alta, cuochi italiani e camerieri, facchini, portieri, ecc. extracomunitari o comunque stranieri?). Non è un caso che siano apprezzate e ricercate "professioni" ritenute (spesso a torto) meno faticose e meno impegnative?
Todos Caballeros? È, questo, il "caso serio" di una disoccupazione che risulterà endemica se non si verificherà un cambio di mentalità, se non si rivaluterà il lavoro manuale, se non ci si educherà alla fatica e al sudore: ovviamente sfidando la più radicale impopolarità e meritandosi l’accusa di bieco conservatorismo. Ma si ritiene davvero che si possa tornare ai livelli di crescita del passato e creare ai livelli "alti" della società posti di lavoro sufficienti per tutti gli italiani, continuando a usufruire, ai livelli bassi, dell’apporto degli stranieri?Anche la comunità cristiana deve compiere, al riguardo, un serio esame di coscienza. Su questo giornale qualche riflessione c’è già stata. Ma mi sembra che sia in gran parte venuta meno l’attenzione al lavoro, in tutte le sue forme. L’importante, anche se non priva di incertezze, esperienza dei "preti operai" è ormai alle nostre spalle; i vertici ecclesiastici e anche quelli laicali (ivi compreso chi scrive, ammesso che appartenga a questa categoria) hanno nel loro passato, al più, esperienze brevi e saltuarie di lavoro manuale e di "sudore della fronte". È dunque venuto il tempo, dopo quello della «riabilitazione dell’etica», anche della «riabilitazione della fatica». Senza ripetere l’elogio della mitica «impagliatrice di sedie» cara a Charles Péguy (tale infatti era sua madre…), preoccupata che quanto usciva dalle sue mani fosse bello e ben fatto, occorre tornare a parlare di più del lavoro: di un lavoro svolto in libertà, degnamente retribuito, non supinamente subìto (che ne è della "partecipazione" operaia?), svolto nella consapevolezza di costruire in qualche modo, con le proprie mani, il Regno che viene.Se non subentrerà questa nuova consapevolezza, non resterà che assistere sbigottiti alle migliaia di domande per un posto di usciere ministeriale e alla malinconica chiusura di stalle per le quali non si trova più nessuno disposto ad alzarsi all’alba.