Il direttore risponde. L'economia delle ambizioni e l'alternativa possibile
Caro direttore,
ho apprezzato molto il commento di Luigino Bruni sull’attribuzione del premio Nobel per l’economia ai professori Oliver Hart e Bengt Holmström. Il lavoro svolto dai due economisti si basa sulla «teoria dei contratti» dove gli incentivi economici sono il perno principale per organizzare i rapporti di lavoro e per raggiungere gli obiettivi. Il professor Bruni sostiene che questa teoria è già ampiamente utilizzata ed è alla base della mancanza di rapporti duraturi tra datore di lavoro e dipendenti, ormai con l’unico vincolo del profitto per entrambi. La conseguenza di questa “politica” è sicuramente la mancanza di obiettivi comuni all’interno di un’azienda, la scarsa fidelizzazione, la competitività interna, la necessità di mettersi in luce a scapito degli altri e la ricerca del profitto personale prima del profitto comune. Tutto questo porta a una lassità nei rapporti di lavoro con un’estrema facilità di cambiamento. La conclusione di Bruni e che questo sistema non può avere un futuro ma è destinato, e i risultati sono già davanti ai nostri occhi, a determinare solo rifiuti, bruciando tutti gli sforzi fatti dai singoli che prima o poi verranno scavalcati inevitabilmente da altri simili, i quali anch’essi verranno “bruciati” da altri con il risultato finale di un cumulo di cenere umana che corrisponde ad emarginazione, solitudine e disagio sociale. Accanto a questa analisi che condivido manca, secondo me, una riflessione e una conclusione. La riflessione è spontanea: questa teoria non si può riconoscere nell’etica cristiana, ma – nonostante questo – è, anche in Italia, quasi universalmente accettata come “regola del gioco” e sempre più seguita. La logica conclusione è quella di chiedersi quale sia il ruolo dei cristiani nella nostra società civile, è quello di chiedersi perché tanti cristiani assecondano questo gioco, sono timidi nel proporre alternative e preferiscono camuffarsi nel gruppo pensando che sia impossibile cercare un cambiamento. E se questo sforzo non viene fatto da noi da chi dovrebbe essere fatto? Si racconta che madre Teresa di Calcutta, intervistata da un giornalista a proposito della crisi della Chiesa, alla domanda di chi è la colpa, rispose: «Mia e sua, perché la Chiesa è fatta da tutti i cristiani, se tutti noi facessimo il nostro dovere di cristiani nel nostro ambito, non ci sarebbe nessuna crisi». Il compito non è facile, ma chi ha mai detto che è facile essere cristiani?
Luca Cozzaglio, MilanoLe «conclusioni» di quell’editoriale di Luigino Bruni sono volutamente conclusioni aperte, caro dottor Cozzaglio. E il lungo, accurato e anche appassionato lavoro di informazione e di opinione che stiamo sviluppando in questi anni che, come tutte le fasi di crisi, sono difficili eppure promettenti è teso proprio a offrire elementi e – perché no? – spunti concreti per sostenere la costruzione, la condivisione e la diffusione contagiosa di un’altra visione e di un’altra pratica economiche. Fondate sui grandi «patti», come ha scritto Luigino Bruni, e non solo o prevalentemente su «contratti» che fanno leva sulle ambizioni e sulle «passioni tristi» delle persone. Credo come i miei colleghi e collaboratori che non si tratti di un tema da libri dei sogni, ma di un’alternativa concreta, basata su esperienze possibili, efficaci, sostenibili, convincenti. Un’alternativa impegnativa e seria, che è in felice collegamento – per quanto riguarda l’Italia – con tanta parte della storia delle nostre comunità civili oltre che con i capisaldi della Dottrina sociale della Chiesa. Il che, è verissimo, non la rende più facile. Perciò, gentile amico, il suo vibrante appello a un impegno deciso dei cristiani in questa direzione è anche il nostro. Riecheggia laicamente quello del Papa e dei nostri vescovi, ma trova pure una solida eco nella fatica e nella gioia delle “imprese” avviate da tutti coloro che già lo prendono sul serio. Noi non ci stanchiamo di rinnovarlo e di aggiornarlo, senza consegnarci alle logiche che governano questo tempo, che è anche nostro, e questo capitalismo, che ci riguarda e che non demonizziamo in assoluto, ma che vogliamo umanizzare e rivoluzionare di responsabilità, perché oggi non trova regole o le disegna fragili e funzionali a sfruttamenti e precarietà che impoveriscono, isteriliscono e incattiviscono la vita di tantissime persone, delle loro famiglie e comunità, del mondo intero. Non tutto è economia, certo. Ma l’economia – il mercato – appartengono alla città dell’uomo e della donna, sono parte della nostra vita, e li vogliamo fare – ma fare davvero – diversi e più giusti.