Opinioni

editoriale. Eco-profughi, il dramma dei popoli in fuga

Gianluca Schinaia giovedì 10 aprile 2014
Sono in fuga, nel 2050 saranno 250 milioni: non scappano da guerre e persecuzioni, non cercano solo una condizione migliore. Sono i profughi climatici, persone in movimento che non possono più vivere nel territorio in cui sono nate e cresciute. Perché è stato inondato oppure è diventato un deserto. O perché, più semplicemente e letteralmente, non esiste più. «Le piogge sono state molto intense. Molto intense. Non c’è paragone con nulla visto prima. Prima le piogge cadevano per due mesi l’anno, fino a 30 centimetri. Adesso piove per quasi sei mesi e l’acqua raggiunge anche i 2 metri. Noi non vogliamo lasciare la nostra terra. Qui si sono il nostro passato, i nostri ricordi, i nostri avi. Non vogliamo affollare le città, dove diventeremmo delinquenti. Dove finiremmo con l’essere poveri». Sono le parole di Octavio Rodriguez, che vive a Las Caracuchas, in Colombia, oggi diventato un villaggio troppo inospitale, perfino per chi da generazioni lo chiama "casa".
Non tutti scelgono di emigrare. Lasciare abitazione e famiglia, forse per sempre, con la speranza di raggiungere un luogo lontano per migliorare la propria condizione è un’alternativa solo per alcuni migranti. Per altri, partire è una spinta dettata dal puro spirito di sopravvivenza: significa scappare. È il caso, oggi, dei profughi climatici, figli del nostro tempo, di cui ancora si sa poco. Eppure, entro il 2050 vi saranno nel mondo 250 milioni di "rifugiati ambientali": ogni anno cresceranno mediamente di 6 milioni. Un numero già oggi più alto degli esuli di guerra. Sono definiti "profughi climatici" o "eco-profughi". Ma per loro non esiste uno status giuridico riconosciuto come, ad esempio, per coloro che scappano da conflitti e persecuzioni: le uniche eccezioni sono Svezia e Finlandia, che definiscono questi individui "migranti ambientali" e perciò dotati di specifici diritti. Ma l’Unione europea e i Paesi aderenti non danno né riconoscimento giuridico ai profughi climatici né tanto meno attuano politiche specifiche per affrontare questi spostamenti di massa.Finalmente il 31 marzo scorso, con la pubblicazione del quinto Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), il documento più rilevante a livello mondiale relativo al riscaldamento globale, «si è cominciato a riconoscere la realtà dei migranti ambientali», spiega Tiziana Finelli, una delle autrici (insieme ad Elena Peruzzi e Maurizio Gubbiotti) del dossier di Legambiente "Profughi ambientali: cambiamento climatico e migrazioni forzate", uno degli studi italiani più accurati sul tema. Secondo Legambiente, «in Italia non ci sono luoghi in cui il cambiamento climatico abbia prodotto effetti così rilevanti da spingere all’emigrazione». D’altra parte, il livello del Mar Mediterraneo si è alzato di 20 centimetri durante il XX secolo, lo farà di altri 30 entro il 2100: un’altezza ragguardevole e preoccupante. Ma adesso i problemi più urgenti sono altri. «Da noi – prosegue Finelli – esistono fenomeni di desertificazione, di innalzamento del livello del mare, di erosione costiera, e sono in aumento le situazioni di dissesto idrogeologico legate alla violenza delle piogge», le stesse piogge della storia di Octavio.La sua è una delle testimonianze raccolte dall’ong Uk Climate Change and Migration Coalition circa i cosiddetti rifugiati interni. Persone costrette ad abbandonare il proprio territorio d’origine pur rimanendo nella stessa nazione. Oltre 5 milioni in Colombia a inizio 2012: il doppio dell’Iraq e del Sudan, zone di conflitti. Invece i colombiani si spostano soprattutto a causa degli effetti del clima, così come i boliviani per la fine di un ecosistema. Negli ultimi vent’anni, lo scioglimento dei ghiacciai in Patagonia ha contribuito del 2% alla crescita del livello mondiale dei mari. Dietro a questo effetto globale, c’è anche la dissoluzione di piccole comunità, come quella di Lucia Quispe di Khapi in Bolivia: «Sono molto preoccupata. La neve e il ghiaccio scompaiono giorno dopo giorno, anno dopo anno. Il Sole è più forte e non nevica più come un tempo. Senza acqua, come potremmo irrigare i nostri campi?».Migrare verso un nuovo Stato, magari diversissimo da quello d’origine. È il caso anche di coloro che abitano i Paesi costieri o le isole, esposti all’innalzamento dei mari. È il minaccioso destino degli abitanti di Kiribati, formato da tre arcipelaghi e parte della Micronesia. Potrebbe essere la prima nazione a scomparire per effetto dei cambiamenti climatici. Kiribati si estende su 717 chilometri quadrati e la popolazione di circa centomila persone vive prevalentemente nella capitale nell’isola di Tarawa. Gli abitanti le hanno provate tutte: realizzare isole artificiali, ripascimento costiero... Alla fine il presidente Anote Tong ha avviato le pratiche per acquistare cinquemila acri nelle vicine Fiji e sta formando a livello professionale i suoi concittadini per trasformarli in migranti benvoluti nei Paesi d’arrivo. Sono sempre sono i piccoli a pagare i danni dei potenti. Come ha dichiarato l’ex segretario generale Onu Kofi Annan: «I Paesi più vulnerabili hanno meno capacità di proteggersi. Sono anche quelli che meno contribuiscono alle emissioni globali di gas serra». Per considerare solo alcuni degli effetti concreti del surriscaldamento globale, in Nord America cominciano a registrarsi ondate di calore impressionanti nelle grandi città; in America Latina si pensa alla scomparsa della foresta amazzonica; in Europa le inondazioni, le tempeste e le erosioni da alluvioni attentano alla biodiversità e alla produzione del grano. Lo spettro della mancanza d’acqua aleggerà poi in Australia e Nuova Zelanda, nel Nord Africa e nel Sahel, insieme con la siccità e al degrado dei suoli: una stima pessimistica parla della perdita del 75% di aree coltivabili in queste zone africane. E in Asia meridionale l’innalzamento del livello del mare colpirà il 40% delle aree abitate. Problema che tocca principalmente il Bangladesh, come spiega Rafael Reuveny, professore americano dell’Indiana University, in un reportage dell’«International New York Times» pubblicato qualche giorno fa: «Ci sono molti posti a rischio nel mondo a causa dell’innalzamento dei mari, ma il Bangladesh è in cima alla lista più sensibile». Non si tratta solo della sopravvivenza di 160 milioni di individui, ma anche di equilibri geo-politici sensibili, vista la vicinanza dell’India. Le migrazioni climatiche sono infatti potenziali micce di polveriere.
Come ha dichiarato nel 2011 Ban Ki-Moon, attuale segretario generale delle Nazioni Unite, «il cambiamento climatico è una "miscela diabolica" che potrebbe creare pericolosi vuoti di sicurezza (…) una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale». Inoltre, il depauperamento dei terreni spinge chi vive in campagna a spostarsi in città: un vero esodo, a livello globale. «È nelle città che si hanno le opportunità migliori – spiega Alessandro Rosina, docente di Demografia all’Università Cattolica di Milano –. Il problema è che non tutti ce la fanno e si rischia di finire ai margini: così nascono le bidonville. Lì le condizioni di disagio possono essere peggiori delle campagne: gli aspetti igienici, la denutrizione, le realtà micro criminali, l’assenza di una comunità di supporto che c’era nei villaggi». Effetti diversi di un impatto ambientale ormai evidente, su cui è ora di porre seria attenzione. Le istituzioni internazionali hanno inquadrato il fenomeno delle migrazioni climatiche: adesso per loro è il momento di agire. Non c’è da temere il futuro, ma solo l’incoscienza dei segnali che ci arrivano dal presente.