Ecco quand'è che l'esperienza può diventare anche saggezza
Caro direttore,
a parte i giovani, che serbano negli occhi e sulla pelle il sole e la fragranza della loro età, mi imbatto spesso in amici e conoscenti che non vedevo da tempo, o da molto tempo. Che tristezza constatare nelle loro fattezze (e a loro farà eguale sensazione incontrare me) le scosse di assestamento che quel sisma – il tempo che passa – opera sul corpo di ognuno di noi. Rughe, zampe di gallina, pappagorgia, protesi dentarie malfatte, calvizie, gonfiori, macchie sulla pelle, visi raggrinziti, capelli bianchi. Non mi riconosco, non riconosco nessuno di quelli che eravamo. Se ci guardiamo allo specchio, specie appena svegli dal letargo notturno, ci convinciamo che la vecchiaia altro non è che un’opera di demolizione che, secondo me, coinvolge anche lo spirito. Ci rimane, forse, solo la saggezza, questa anticamera della morte. Ma a che serve la saggezza se giunge solo all’approssimarsi dell’ultimo traguardo?
Non riesco proprio – e neppure vorrei riuscirci – a concepire la saggezza come l’anticamera della morte. Piuttosto, caro amico, la penso come il frutto di una vita matura, che sa assumere il cambiamento e la morte non solo come limite, ma come parte di sé (per un cristiano dovrebbe essere relativamente facile, ma mi rendo conto anch’io, invecchiando, che alla sera della vita molte cose sono invece più difficili a pensarsi e a dirsi... ). E continuo a imparare che è frutto vero e buono solo se si sa condividerlo – per il tempo dato – aiutando a far matura anche la vita di altri. Altrimenti non si può parlare di saggezza, ma tutt’al più di esperienza. Per me la vera saggezza (che spero e che ancora non ho!) contempla non solo l’Altro che è Dio, ma anche la stima per qualunque altra vita, nella sua concretezza gradevole e sgradevole.