Opinioni

Stella dell’assenza/12. Ecco la madre di tutti i doni

Luigino Bruni sabato 18 febbraio 2023

Ester e Mordecai scrivono la prima lettera del Purim. Opera del pittore fiammingo Aert de Gelder (1675)

Oltre quei dieci figli, Aman ne aveva altri venti, dieci dei quali morirono mentre gli altri furono ridotti alla mendicità. Mordecai divenne un uomo ricco, e coniò monete che avevano su una faccia la figura di Ester e sull’altra la sua. E come acquistò potere, Mordecai perse in termini spirituali. Se prima era il sesto fra i grandi dotti di Israele, dopo scese al settimo posto.
Targum Ester VIII-IX-X

«I Giudei colpirono tutti i nemici, uccidendoli e sterminandoli». (Ester 9,5). Il libro di Ester si sta per concludere con il ribaltamento totale e perfetto delle sorti degli ebrei. Il suo ciclo degli eventi si chiude come si concludevano molte antiche storie analoghe: con le armi, con il sangue, con lo sterminio del nemico per mano dell’eroe vincitore. Così, quei persiani che nel disegno perverso del primo ministro Aman dovevano eliminare tutti gli ebrei, vengono sconfitti e uccisi in gran numero dagli ebrei. Il Libro di Ester ama molto la simmetria narrativa e la spinge fino a includere le sorti militari che si ribaltano: «Ne sterminarono quindicimila» (9,16). I conflitti si sono conclusi così per millenni, e in Europa ci eravamo illusi che l’infinito dolore degli stermini del XX secolo ci avesse finalmente insegnato qualcosa di veramente nuovo sulla guerra e sulla pace. E invece ci ritroviamo ancora di fronte agli stessi stermini, decreti, contro-decreti, desideri di vendetta.

Noi leggiamo il libro di Ester, ci sforziamo di comprenderne il genere letterario e la mentalità di quei tempi lontani. Relativizziamo morti, sangue, vendette, li ascriviamo molto al mito e poco alla storia. Lo dobbiamo fare, ma non dobbiamo farlo troppo. Perché le domande cruciali da fare al testo e a noi stessi sono altre: cosa ce ne facciamo di questo ribaltamento di sorti militari nella Bibbia? E cosa possiamo dire ora su Ester che alla fine della storia ci appare come eroina guerriera spietata come i suoi colleghi maschi? Dove è finito il suo savoir-faire politico, dove la sua pietas? Dopo il primo giorno di strage, «il re disse a Ester: “Che cosa chiedi ancora? Ti sarà dato”. Ester disse al re: “Sia concesso ai Giudei di comportarsi allo stesso modo domani, fino a quando saranno impiccati i dieci figli di Aman”» (10,12-13). Di fronte a tutto quel sangue, la regina chiede a suo marito solo di prolungare di un giorno lo sterminio e di impiccare i figli di Aman. Una Ester che qui somiglia alle donne potenti e bellicose che la Bibbia e anche la nostra storia contemporanea conosce bene.

Potremmo tornare indietro, ripercorrere i capitoli del libro e convincerci che fin dall’inizio Ester era una donna potente come tutte le altre, con la sola differenza che stava dalla parte buona per la Bibbia. Possiamo farlo, qualcuno lo fa, ma non conviene farlo, perché non è una lettura feconda della Bibbia. La coerenza etica assoluta dei suoi personaggi non è necessaria alla morale della letteratura antica, tantomeno della Bibbia. Il gesto vigliacco di Davide nei confronti di Uria non cancella la sincerità del suo cuore mentre ascolta la parabola della pecorella di Natan; il pianto di Giacobbe quando dopo anni rincontra suo fratello Esau non è annullata dalle sue bugie per rubare la benedizione al padre; il “tu sai che ti amo” di Pietro non è eliminato dal canto del gallo. Anche così la Bibbia parla alla profondità del nostro cuore, lì ci raggiunge e ci salva; perché né la Bibbia né la nostra vita sono una partita doppia dove sono possibili le “compensazioni di partite” dal segno opposto. Un abbraccio sincero di riconciliazione supera infinitamente le mille parole cattive che ci siamo detti, e forse ci diremo ancora. Forse alla fine saremo salvati dall’angelo della morte che tra i molti vuoti della nostra storia troverà un solo anello, lo vedrà brillare, lì fisserà la corda e ci trascinerà con sé in paradiso. Perché quel solo atto d’amore puro aveva bucato il cielo, da quel foro Dio ci ha visti, ci ha conosciuti-riconosciuti, e non ha smesso più di guardarci negli occhi dell’anima.

Questo capitolo nove contiene anche la fondazione della festa ebraica di Purim (9,19-22). Vi troviamo la spiegazione del nome della festa: «Quei giorni furono chiamati Purim a motivo delle sorti» (9,24-26). In realtà, lo abbiamo accennato la scorsa settimana, questa festa nasce da una tradizione babilonese-persiana (chiamata Sacee) che gli ebrei adottarono e dopo l’esilio inserirono, con qualche variante, nella loro tradizione. Il libro di Ester svolge allora la funzione di dare nuova fondazione religiosa a una festa importata da una cultura pagana. Questi processi sono comuni in tutte le religioni e in tutte le culture (anche la Pesah ha una fondazione analoga (Esodo 12,15). Ogni culto che subentra su un precedente introduce alcune (poche) feste inedite e trasforma (molte) feste già esistenti dando loro nuovi nomi e significati. Nel passaggio tra tradizioni etrusche, picene, romane e cristiane, molte feste basate sui cicli dei raccolti e della fertilità hanno soltanto cambiato nome; qualche volta cambiava la statua del “santo” ma il baldacchino, i fiori, i canti e la data della festa rimanevano (quasi) identici nei secoli. San Rocco, San Biagio, Santa Barbara sono nomi e volti nuovi di copioni sacri molto più antichi.

La Chiesa con la sua saggezza ha (non senza fatica e incertezze) intuito che la Terra era abitata dalla presenza reale di Dio ben prima dell’avvento del cristianesimo (che nelle campagne e in mezzo ai poveri è penetrato sempre poco e in modo meticcio). Sentiva che lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque della terra e del cuore dei popoli ben prima dell’anno zero nel Medio Oriente e in Europa, che ha continuato ad aleggiare parallelo in altre culture, e oggi deve ricordarsi che quello stesso Spirito continua, nel mistero, a ispirare il nostro tempo. E così non ha chiamato “idolatria” ogni culto diverso, ha creduto nell’intuizione religiosa della gente che non conosce i dogmi ma conosce la voce vera e buona di Dio non meno degli esperti di Dio. La Bibbia mentre lottava con tutta sé stessa per salvare la diversità del suo Dio-YHWH rispetto ai tanti dèi naturali della fertilità e della natura (e noi la ringrazieremo sempre per questa buona battaglia), senza dircelo ha ospitato molte presenze di tradizioni e culti diversi, dalla prima all’ultima sua pagina, e questo meticciato inintenzionale è stata capace di una generatività infinita. Il cuore di Dio è più largo del cuore delle nostre religioni. Una nota essenziale della festa di Purim, forse anche questa precedente al libro di Ester, sono i doni. Durante Purim si fanno due tipi di doni: ci si dona il cibo tra amici e si fa l’elemosina ai poveri (la tzedakà): si devono donare «almeno due cibi a due poveri o due vestiti a due poveri» (Comunità ebraica di Milano).

È molto bella questa tradizione del dono reciproco del cibo. In tutte le civiltà troviamo la comunione dei pasti, una risorsa troppo importante per lasciarla al singolo individuo, alla sua forza e debolezza. È la comunità il luogo buono per consumare il cibo, perché il cibo non è, non può essere, un semplice bene privato. È il primo bene comune, perché tutti nella comunità hanno diritto alla vita. Le comunità nel corso del tempo hanno generato prima clan e poi nuclei famigliari, e così la gestione comunitaria del cibo è diventata faccenda famigliare, quindi sottoposta alla diseguaglianza tra famiglie – troppo cibo in alcune, troppo poco in altre. Ma, ogni tanto e con la forza del rito, dobbiamo ricordarci che il cibo è bene comune, che tutti hanno diritto al cibo – tutti, almeno a Purim. E se in almeno un giorno siamo tutti uguali nel diritto al cibo, possiamo sperare che verrà un altro giorno in cui saremo uguali sempre e tutti – è questo un senso profondo dello shabbat nella Bibbia: la giustizia del settimo giorno è la profezia per gli altri sei.

Donarsi il cibo gli uni gli altri è la madre di tutti i doni. Che ci ricorda che quando un amico viene a casa e ci dona un cibo da lei/lui preparato per noi – quella erbetta raccolta, quella torta, quel pane … - il dono acquista qualcosa di speciale, la casa si riempie di una fragranza di paradiso. Rivive il dono della manna nel deserto, risorge la focaccia che la vedova preparò per Elia con il suo ultimo pugno di farina, torniamo tutti nel piano superiore della casa a Gerusalemme, viene a visitarci il ragazzo, ci dona i suoi cinque pani e, almeno in quel giorno, sfamiamo il mondo intero. Il Natale o San Valentino, le feste ormai occupate o create dalla nuova religione capitalistica, sono ormai diventate feste dei doni di merci: torneremo un giorno a donarci il pane nella reciprocità?

Infine, non possiamo terminare questo capitolo senza tornare col cuore a quei dieci figli impiccati, o, come dicono alcuni antichi commenti, figli crocifissi. La Bibbia ha custodito i loro nomi, perché noi non li dimenticassimo. Eccoli: Farsannestàin, Delfo, Fasga, Fardata, Barea, Sarbacà, Marmasimà, Arufeo, Arseo, Zabuteo. Restiamo sgomenti, l’attenuante del genere letterario non ci deve consolare. Sono i nomi dei nostri figli, delle figlie e figli iraniani che continuano oggi a essere impiccati. Poi iniziamo, angosciati, a sfogliare tutta la Bibbia sperando di trovare qualcosa, una sua pagina del non-ancora. Finalmente la troviamo: è la pagina di Rispa, la madre dei crocifissi. Era lì, l’avevamo dimenticata, ci aspettava per consolare il dolore per quei figli impiccati. Come nelle nostre comunità umane dove i miei limiti sono curati e colmati dalle virtù degli altri e le mie virtù accudiscono le loro mancanze, nella grande ed eterna comunità della Bibbia il vuoto o il buio di un personaggio è riempito dal troppo pieno di un’altra figura luminosa.

«Il re Davide prese i due figli che Rispa, figlia di Aià, aveva partoriti a Saul, Armonì e Merib-Baal, e i cinque figli di Merab, figlia di Saul… Li consegnò nelle mani dei Gabaoniti, che li impiccarono sul monte» (2 Sam 21,8-9). Altri figli crocifissi, un altro re, un’altra vendetta, ancora Saul. Ma qui, diversamente dal libro di Ester, c’è una madre: c’è Rispa. Ester è amatissima, ma non è una madre – - «Allora Rispa prese il sacco del lutto e lo stese sulla roccia, dal principio della mietitura fino a quando dal cielo non cadde su di loro la pioggia. Essa non permise agli uccelli del cielo di posarsi su di loro di giorno e alle bestie selvatiche di accostarsi di notte» (2 Sam 21,10)

Rispa, la madre, è l’altra shomer/sentinella della Bibbia. Custodisce Ester, sua sorella, e da millenni continua a implorarla di convincere il re a ritirare anche il secondo decreto di sterminio dei persiani. Ed è ancora lì, nel sacco sopra la roccia a scacciare gli uccelli. E ci resterà fino a quando l’ultimo decreto di morte sarà cancellato.

l.bruni@lumsa.it