Opinioni

La lezione da Foggia. Ecco il silenzio che fa più duro il pesante gioco delle mafie

Antonio Maria Mira venerdì 4 giugno 2021

Foggia è capoluogo di provincia, quasi 150mila abitanti. Terra di Capitanata, ricca, tra i territori più produttivi in agricoltura. Ma anche terra di mafia e corruzione. Vere, pesanti, violente e oppressive. Ma negate a lungo. E anche oggi. Nonostante il lungo elenco di attentati esplosivi o incendiari, perfino durante la pandemia e il lockdown. Nonostante i continui allarmi lanciati da magistratura e forze dell’ordine. Nonostante le ripetute denunce di associazioni antimafia. E nonostante le 20mila persone scese in piazza il 10 gennaio 2020, aderendo all’appello di Libera, dopo un raffica di attentati. Reazioni? Quasi nessuna. Solo parole. Soprattutto dalla politica, che per anni ha continuato a negare, sminuire, annacquare. Quasi offesa.

Sembra storia di anni fa, e invece è storia di oggi, terzo millennio. Ma poi arriva la cronaca, pressoché quotidiana, a dirci che la narrazione è altra. Il 9 marzo il prefetto Raffaele Grassi invia una commissione d’accesso per accertare le infiltrazioni della criminalità organizzata nell’attività dell’amministrazione comunale. Il 30 aprile finisce in carcere per corruzione il presidente del Consiglio comunale Leonardo Iaccarino, già approdato sui giornali per aver sparato dal balcone a Capodanno con una pistola a salve. Il 21 maggio le manette scattano per l’ex sindaco, da poco dimissionario, Franco Landella, accusato di corruzione. Una gran brutta immagine per una città che ricorda Francesco Marcone, direttore dell’Ufficio del Registro di Foggia, anche lui uomo delle istituzioni, ma intransigente al punto da pagare con la vita il 31 marzo 1995.

Che differenza! Eppure la città fatica a reagire. Così come per il dramma degli immigrati, che solo nei ghetti trovano ospitalità. Non basta l’impegno di due prefetti, Massimo Mariani e Raffaele Grassi, e del commissario per gli immigrati, il prefetto Iolanda Rolli. Non basta il motivato lavoro della procura guidata da Ludovico Vaccaro. Non bastano i continui appelli del vescovo Vincenzo Pelvi, e le efficaci iniziative della Caritas diocesana. Non basta la coraggiosa e incisiva attività della Fondazione antiusura Buon Samaritano e del suo presidente Pippo Cavaliere, che ha strappato tante persone dal cappio degli strozzini dei clan, portandoli a denunciare. Tutte belle e positive storie. La squadra-Stato qui sta dando il meglio di sé, dopo anni di sottovalutazione. E altrettanto fa la squadra del Terzo settore e della Chiesa locale. Ma serve di più.

Serve una squadra del bene ampia e convinta. Serve il coinvolgimento di tutti perché le mafie e il malaffare richiedono non solo un 'no' ma anche un 'noi', come ci ripetono due giovani e bravi magistrati pugliesi, Renato Nitti e Giuseppe Gatti. Perché la lotta alle mafie, ovunque, non è opera di navigatori solitari, di eroi senza macchia e senza paura. È, invece, battaglia di tutti i giorni, contro mafie e corruzione incistate nel quotidiano. Soprattutto ora che, in nome della ripresa del Paese dopo pandemia e lockdown, pioveranno tanti miliardi. Le mafie e i loro complici con giacca e cravatta – mafie del clic e non del bum bum, mafie da tastiera – sono già pronti. Non basta dire 'non passeranno', o 'non lo permetteremo'. «Chi è a conoscenza dei fatti parli, denunci, testimoni», è stato l’appello del procuratore di Foggia, una città dove il silenzio ha dominato per troppo tempo.

Ancora una volta la lotta alle mafie chiede fatti, concreti. Non solo dove le mafie sono nate e dove hanno le radici, ma soprattutto dove, in silenzio e trascurate, hanno portato soldi e affari. La vicenda foggiana insegna, a chi vuole capire con onestà e trasparenza. Altrimenti per le mafie, e non solo nella Capitanata, si aprirà una stagione di affari pesanti e sporchi. Un giogo difficile da spezzare.