Università, quale dignità?. Docenti a contratto: eccellenti «precari» senza attenzioni
Ora che il cosiddetto “Decreto Dignità” è diventato legge, e il dibattito sui suoi effetti resta aperto, può essere utile riflettere su una specifica “lacuna” certamente presente nel provvedimento. C’è infatti una categoria di lavoratori precari (così precari che di più non si può) di cui nulla si dice in quel testo: i “professori a contratto” nelle Università. Questo istituto – la possibilità, cioè, di conferire incarichi di docenza a personale non dipendente degli atenei, bensì a “esperti esterni” – è stato previsto per la prima volta negli anni Ottanta del Novecento: l’idea era quella di coinvolgere nel sistema universitario figure professionali dotate di competenze molto specifiche e settoriali, non presenti nel personale di ruolo. Poteva trattarsi, per esempio, di un ingegnere esperto di certi particolari macchinari oppure di un diplomatico di carriera particolarmente ferrato nelle problematiche geopolitiche dei Paesi dove era stato ambasciatore. Per questo fu previsto che la remunerazione non fosse attribuita sulla base di uno stipendio mensile, bensì su base oraria.
Ciò aveva una sua logica: ipotizzando che l’istituto riguardasse professionisti esterni, dunque lavoratori già dotati di uno stipendio o comunque di un reddito, il pagamento “a ore” poteva andare più che bene. Il “professore a contratto” non si sarebbe arricchito in virtù del nuovo incarico, ma avrebbe potuto mettere sul proprio biglietto da visita l’affiliazione universitaria, elemento comunque di un certo prestigio. E l’università, con poca spesa, avrebbe calamitato al proprio interno nuove competenze didattiche. Nel corso degli anni, però, la situazione è andata degenerando, e oggi vengono affidati tramite contratto anche insegnamenti fondamentali. Questo perché le università si sono rese conto che se puoi pagare un docente a contratto in un anno con la stessa cifra che un docente di ruolo percepisce in un mese (e magari anche con meno), finisci per conseguire un notevole risparmio. Peccato, però, che ciò avvenga sulla pelle del precario di turno. Perché ormai ad assumere i contratti di docenza universitaria non sono più soltanto professionisti o dipendenti da altri comparti della Pubblica Amministrazione, ma anche studiosi per i quali quello è – di fatto – l’unico lavoro. Ecco allora un personale altamente specializzato remunerato in maniera a dir poco inadeguata. Così troviamo professori a contratto costretti a saltabeccare da un’università all’altra per mettere insieme tre o quattro contratti con cui provare a sopravvivere.
Oggi un professore a contratto percepisce dai 100 ai 25 euro lordi per ora di lezione, a seconda delle sedi universitarie. L’autonomia è anche questo: ciascuno ti paga quanto vuole. Spesso il pagamento orario, comunque, si aggira attorno ai 50-60 euro lordi. Quasi mai qualcosa in più è previsto per esami e tesi. Qualcuno ha calcolato che, considerando il numero effettivo di ore di lavoro svolte (lezioni, esami e tesi), un professore a contratto – di fatto – può andare a guadagnare circa 3-4 euro all’ora. Senza considerare i costi di viaggio e soggiorno (che l’università non rimborsa) per il personale fuori sede. Gli studenti spesso non percepiscono la differenza di “status” tra un professore ordinario, un associato, un ricercatore (i tre gradini della piramide accademica, ma in questo caso tutti e tre dipendenti dell’università, quindi con uno stipendio) e il professore a contratto, perché quest’ultimo svolge esattamente lo stesso lavoro dei primi tre. Eppure il trattamento economico che riceve è decisamente al di sotto della soglia della dignità, per tornare a questo valore proposto e rivendicato dal provvedimento di legge che sta tanto a cuore all’esecutivo. Alcuni anni fa, il sociologo del lavoro Domenico De Masi aveva calcolato che negli atenei italiani il 30% degli insegnamenti attivati erano coperti da docenze a contratto. Temo che oggi, complice la riduzione di risorse finanziarie per nuove assunzioni a fronte dei numerosi pensionamenti di personale di ruolo che ci sono stati negli ultimi anni, questa percentuale sia ulteriormente salita. Il che significa che se domani i professori a contratto decidessero di rinunciare a un incarico così mal retribuito, il risultato sarebbe un blocco immediato dell’attività didattica dei nostri atenei. Se in molti continuano ad accettare di lavorare a queste condizioni, lo fanno da un lato per la passione nei confronti del loro lavoro, dall’altro – anche e legittimamente – per la speranza, dopo anni di precariato, di una futura assunzione nei ranghi accademici. Ma se l’impegno del governo dovrebbe essere quello di stabilizzare tutti i precari, compresi quelli dell’università, intanto potrebbe darsi da fare per varare un provvedimento specifico volto a rendere il precariato universitario almeno un po’ più “dignitoso”.