Opinioni

Il Papa in sinagoga. Ebraismo e cristianesimo: una direzione, due strade

Stefania Falasca martedì 19 gennaio 2016
Un atto ripetuto tre volte per la tradizione giuridica rabbinica diventa chazaqà, consuetudine fissa, ha fatto osservare il rabbino capo della Comunità ebraica di Roma Riccardo Di Segni accogliendo domenica la terza visita di un Pontefice in Sinagoga. Certamente la presenza di Francesco al Tempio Maggiore ha dato il senso di questa consuetudine. E non solo nel consolidarsi di un rapporto che dalla dichiarazione conciliare Nostra aetate è andato approfondendosi. L’immagine di Francesco che si attarda passando avanti e indietro tra i banchi del Tempio per stringere le mani a ognuno e infine abbracciare gli ultimi sopravvissuti alla deportazione nazista segna un incontro che non porta lo stigma del ritualismo. È lo stabilirsi di un legame spirituale, nella mutua fiducia, di una consapevole relazione "intra-familiare". Ed è il tracciato tangibile e concreto di una nuova epoca. Contraddistinto da un messaggio aperto e benefico che una altrettanto aperta e benefica ricezione non ha mancato di sottolineare.Con questa nuova visita del Papa in Sinagoga, e con questo rinnovato pubblico incontro, ebrei e cattolici lanciano un messaggio nuovo, anzi, sempre nuovo, rispetto alle tragedie che hanno riempito anche le cronache degli ultimi mesi, come rimarcato dalla stessa presidenza della Comunità ebraica di Roma: «La fede non genera odio, non sparge sangue, richiama al dialogo». Prefigurando «una convivenza ispirata all’accoglienza, alla pace e alla libertà in cui si impara a rispettare, ciascuno con la propria dignità e diversità, l’altro». E qui i gesti tangibili e ripetuti hanno la supremazia sulle parole. Gesti orientativi nella bussola di un tempo alla deriva, che immemore naufraga nell’ombra oscura dell’estremismo e della violenza erigendo muri e nuovi ghetti e nuove persecuzioni. Gesti che chiamano all’impegno comune per la difesa della dignità umana, per la pace e la giustizia perché il nesso religioni-pace non cessa, anzi, esige di essere uno dei segni forti del nostro tempo, nella consapevolezza urgente che «la violenza dell’uomo sull’uomo è in contraddizione con ogni religione degna di questo nome, e in particolare con le tre grandi religioni monoteistiche».Il nodo oggi, e specialmente del cattolicesimo e dell’ebraismo, dei «fratelli e sorelle nella fede», è proprio quello di riproporre la necessità vitale di una coscienza di sé senza ipocrisia in una rinnovata percezione dell’altro e dunque di responsabilità in quella visione di veri rapporti tra religioni come fonte di sviluppo e di pace. Qui sta lo spartiacque odierno. E la prospettiva è comune.I gesti e le parole di papa Francesco sono stati tipici del suo pontificato post-conciliare che ha da tempo maturato il dialogo intra-religioso con l’ebraismo già da prima dell’elezione a Vescovo di Roma e che ribadisce la sua ricezione del Vaticano II come lascito acquisito da far fruttare, rendendo possibili gli sviluppi teologici recenti scaturiti dal solco della rivoluzione copernicana iniziata con la Nostra aetate. In primo luogo, il recente e importante documento vaticano pubblicato, il 10 dicembre scorso, dalla Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo. Documento che mette nero su bianco il punto di non ritorno: «I cristiani, per comprendere se stessi, non possono non fare riferimento alle radici ebraiche, e la Chiesa, pur professando la salvezza attraverso la fede in Cristo, riconosce l’irrevocabilità dell’Antica Alleanza e l’amore costante e fedele di Dio per Israele». Ciò significa sancire il rifiuto di un’azione evangelizzatrice e di missione istituzionale con il popolo ebraico, significa quindi chiudere un capitolo di storia doloroso nel riconoscimento di una complementarietà perché «Dio continua a operare nel popolo dell’Antica Alleanza e fa nascere tesori di saggezza che scaturiscono dal suo incontro con la Parola divina. E per questo anche la Chiesa si arricchisce quando raccoglie i valori dell’ebraismo», come aveva espresso il Papa nella Evangelii gaudium. In tono con questo spirito dell’incontro i discorsi tenuti da Renzo Gattegna, presidente delle Comunità ebraiche italiane, e del rabbino capo Di Segni, sono stati pieni di riferimenti all’inizio di questa nuova prospettiva di rapporti tra ebraismo e cristianesimo. Il rimando all’anno giubilare, entro il quale anche questa visita si inscrive, prendendo spunto dai Salmi sul tema della misericordia indissociabile dalla giustizia è stato «un segno di come le strade divise e molto diverse dei due mondi religiosi condividono comunque una parte di patrimonio comune». E se sono state esplicitate le attese dell’ebraismo verso una Chiesa che non torni indietro rispetto alla svolta iniziata, si è fatto esplicito riferimento alla necessità per la Chiesa di far conoscere ai suoi fedeli tale insegnamento sull’ebraismo. Demoliti i timori nascosti, sono istanze queste che non possono più permettersi il lusso del solo alveo specialistico senza declinarsi nel contesto vitale della Chiesa contemporanea, così come non possono essere ignorate dall’insegnamento ebraico per spazzare pregiudizi e deviazioni affinché il punto di non ritorno possa effettivamente coincidere con l’avvio consapevole e fecondo di una fraterna nuova era.