Opinioni

Lotta alla coreana. Patti chiari. E sia, tracciateci. Ma solo per poco

Andrea Lavazza sabato 28 marzo 2020

Modello coreano per contenere il virus, tracciamento per limitare i contagi e, magari, uscire un po’ più di casa, riaprire qualche attività commerciale e produttiva. Chi oserebbe opporsi a un’applicazione della tecnologia che offrisse uno spiraglio nella crisi peggiore dall’ultima guerra mondiale per vittime e costi globali? Potrebbe sembrare non un lusso, ma quasi una richiesta immorale invocare la privacy mentre cresce inesorabile la conta dei morti. Ed egualmente dare respiro all’economia con ripartenze selettive risulterebbe prioritario rispetto alla tutela dei dati personali.

L’equilibrio dei diritti e la proporzionalità tra di essi sembra una cornice che tutti i partecipanti al dibattito pubblico sono inclini accettare. E all'interno di quest’ultima in alcune fasi può prevalere l’estensione del diritto alla salute a scapito di quello alla riservatezza. Eppure, le cose sono più complicate di così. E merita di sottolinearlo di fronte a proposte politiche di sospendere del tutto le norme sulla privacy Di che cosa stiamo parlando? In breve, una misura efficace per frenare l’epidemia di Covid–19 sembra essere il seguire (e ricostruire) gli spostamenti in tempo reale di tutti coloro che sono positivi e di coloro che sono stati in contatto con questi ultimi. Si può così tempestivamente circoscrivere un focolaio ed evitare che si espanda, perché anche i negativi al coronavirus saprebbero subito quali persone e quali zone evitare.

Ciò consente sia di intervenire dal punto di vista clinico in modo mirato e più efficace sia di agire sul piano epidemiologico in maniera efficiente, evitando la serrata generale che danneggia i cittadini e riduce reddito e ricchezza. Il metodo, grazie alle conoscenze tecnologiche, alle infrastrutture e alla diffusione dei dispositivi individuali, pare piuttosto semplice. Si attivano i Gps di ogni smartphone e grazie a una specifica App, con l’aiuto degli operatori telefonici, si seguono tutti gli spostamenti dei soggetti “di interesse”, per esempio, come detto, colui che è risultato positivo al tampone e tutti coloro che gli sono stati vicini, in modo da isolare, per quanto possibile, i vettori del contagio. Avvisi a tutti coloro che si trovano nel cerchio più esterno intorno a quello oggetto della “chiusura” preventiva permettono di fermare la catena della trasmissione del virus. I test non si fanno soltanto ai malati sintomatici, ma anche a campione in base a un programma statistico studiato ad hoc. Poniamo che questo sistema sia scientificamente giustificato e risulti, in termini di costi e benefici, davvero migliore della serrata generale, perché riduce gli affollamenti in terapia intensiva ed è meno costoso considerando gli effetti sul Pil.

Anche in termini di diritti individuali, potrebbe essere più vantaggioso, dato che il confinamento generale nella propria abitazione riduce drasticamente i fondamentali diritti di movimento e di riunione (come le pene detentive, per molti aspetti), mentre il tracciamento digitale annulla il diritto alla privacy (posto che il sistema sia obbligatorio, ma pure l’adesione facoltativa pone problemi di pressione sociale e possibili discriminazioni verso chi non accetta). D’altra parte, il forte rischio di un semplice ricorso alla “via coreana” (Israele sta facendo qualcosa di simile, mentre sembra più virtuoso l’esempio di Taiwan) è che ciò che è accettabile in linea di principio si trasformi in un pericolo imminente e costante per tutti i cittadini. Quando la serrata finisce, ciascuno torna a alle proprie attività e gli effetti negativi di vario genere possono essere smaltiti in tempi più o meno rapidi. Una volta attivato invece il sistema di tracciamento, non solo i dati sono acquisiti per il periodo dell’epidemia (per sicurezza, perché non anche un po’ dopo?) e restano depositati in qualche luogo virtuale, ma l’intero sistema di tracciamento sarà disponibile per nuovi utilizzi.

Nel dibattito etico sulla tecnologia, è noto che uno degli argomenti più forti contro chi fa resistenza a certi nuovi strumenti è dato dal mostrare che le conseguenze della loro introduzione non sono affatto nuove. Quando di una costosissima pillola che aumenta l’intelligenza si dice che potrebbe aumentare le diseguaglianze, si replica che già oggi le costosissime scuole d’élite provocano disuguaglianze sul piano dell’intelligenza. Se si vorrà domani usare il tracciamento contro un fenomeno sociale negativo, come il consumo di sostanze psicotrope, ai critici si potrà obiettare che è già servito ottimamente per contrastare il coronavirus.

Che fare allora? Nessuno ha una soluzione perfetta, considerato anche il pochissimo tempo a disposizione. Misure ragionevoli sarebbero l’adozione del sistema per decreto legge poi convertito dal Parlamento (e non con dpcm); la costituzione di una snella Authority ad hoc costituita da magistrati (gli unici attualmente legittimati a decidere un’intercettazione) ed esperti delle università a coordinare l’utilizzo; la distruzione immediata dei dati dopo l’emergenza e la messa fuori uso della App utilizzata, in modo che debba eventualmente essere riconfigurata; l’introduzione di pesanti sanzioni per ogni abuso. Non è difficile immaginare che se restasse facilmente disponibile, qualcuno ne invocherebbe l’uso dopo una catastrofe naturale, altri potrebbero fare ricorso a essa in aziende e gruppi o altri ancora usarla in episodi di turbolenza sociale (pare che in Cina i dati dei sistemi anti– Covid–19 vadano anche alla polizia). Quando si tratta di salvare vite, si possono sacrificare temporaneamente riservatezza e i dati personali. Tuttavia, introdurre un devastante, orwelliano cavallo di Troia digitale nelle nostre esistenze non è un male necessario, perché minerebbe alla radice la fiducia nelle istituzioni pubbliche. E per questo va certamente evitato.