ContrEconomia /8. E se fosse un’alba di resurrezione?
L’avulsione delle Chiese protestanti dalla Chiesa cattolica fu sciagura molto più profonda che non quella degli scismi orientali.
Giuseppe De Luca, Introduzione all’Archivio Italiano per la storia della pietà
La Bibbia ci ha rivelato un Dio diverso dagli dèi naturali. Non ha scelto di riconoscere il sentimento religioso che c’era già nel mondo dando nuove forme agli antichi culti e riti della fertilità, della morte, del raccolto. La Bibbia e, poi, i primi cristiani hanno invece fatto di tutto per salvare la novità del loro Dio. Lo hanno difeso e custodito al punto di chiamare “idoli” tutti gli altri dèi. E ogni volta che nella storia biblica il popolo d’Israele ha prodotto un idolo, lo ha fatto perché non riusciva a restare all’altezza di un Dio troppo diverso e quindi voleva un “dio come tutti gli altri popoli”, un dio più semplice, toccabile, a portata di mano e di incenso.
E così il popolo ha fabbricato i vitelli d’oro, e i profeti li hanno distrutti. Anche i profeti sapevano che nei culti della natura c’era una certa misteriosa presenza del Dio vero: «I cieli narrano la gloria di Dio» (Salmo 19). Lo sapevano bene, ma sapevano di più che dovevano assolutamente distinguere il Dio che ci raggiunge “dal cielo” dai culti che cercano di raggiungerlo “dalla terra”, altrimenti la forza della terra avrebbe mangiato la novità fragile del cielo. E tenendo altissimo il mistero di Dio ha tenuto altissima la nostra dignità, e da tremila anni continua a ripeterci: “non sei fatto a immagine di idolo”.
La vicenda del Cristianesimo medioevale e moderno è però in parte diversa. Incontrando i popoli europei ha spesso tollerato che la gente continuasse i suoi riti naturali dei campi, coltivasse i suoi spiriti locali, e “battezzò” con nomi cristiani i culti precedenti. E nacque l’Europa cristiana. Così, mentre l’umanesimo biblico aveva provato a liberare gli uomini e le donne svuotando il mondo dai tanti spiriti e demoni, i cristiani lo hanno lasciato abitato da angeli, santi e demoni, sperando, magari in buona fede, che bastasse questa sostituzione per liberare gli esseri umani dalla paura della morte e del dolore.
Con la fine del Medioevo e con l’Umanesimo apparve evidente a molti che la Chiesa medioevale romana aveva un urgente bisogno di una riforma generale (basterebbe pensare alle tesi di Erasmo da Rotterdam). La Riforma di Lutero cambiò e complicò i piani. La reazione della Controriforma cattolica bloccò quella prima stagione di rinnovamento interno e produsse una restaurazione proprio sugli aspetti più criticati da Lutero che, e qui sta il punto, erano davvero quelli più bisognosi di una vera riforma. E così le antiche pratiche meticce (culto dei santi, devozioni, indulgenze, voti, reliquie, …) divennero un tratto distintivo della Chiesa cattolica. Sta qui la radice di molti nostri mali.
Guardiamo da vicino il grande tema del sacrificio. Anche il sacrificio è presente nelle religioni e culti antichi, è parte del repertorio religioso naturale. Lutero fece una battaglia campale contro l’idea della messa come sacrificio: «La messa è il contrario di un sacrificio» (Lutero, Opere Complete, 6, 523-524). Oltre a criticare l’Eucaristia come sacrificio, Lutero confutò anche l’idea antica che la messa fosse la ripetizione del sacrificio della croce. La reazione cattolica qui fu davvero molto forte. Il sacrificio divenne una colonna della teologia, della liturgia e della pietà: «Una vera sposa di Cristo, che vive una vita di sacrificio, è tale uno spettacolo di sovrumana bellezza davanti a Dio» (D. Gaspero Olmi, Quaresimale per le monache, 1885, p. 12).
La croce di Cristo produsse quindi le nostre croci: «Le croci vengono da Dio. Le croci sono necessarie perché Dio ha stabilito così. I veri penitenti sono sempre crocifissi». (Ivi, p. 26). Perché Gesù «sacrificò il suo cuore nel Getzemani, sacrificò il suo onore nel tribunale, sacrificò la sua vita sul Calvario» (p. 291). In un manuale di devozione per donne leggiamo: «Questo è il fine di Dio nell’affliggerci: Egli vuole che l’afflizione non solo serva a purificare le colpe passate, ma anche a migliorare la nostra vita» (G. Fenoglio, La vera madre di famiglia, 1897, p. 250). I tre voti delle monache venivano poi intesi come «i tre chiodi» della croce, e la verginità come «sacrificio del corpo fatto al Signore» (Esercizi spirituali dati alle monache domenicane del monastero dei ss. Giacomo e Filippo di Genova, Roma, 1821, p. 70). L’offerta dei dolori a Dio uniti ai patimenti di Cristo, di Maria e dei santi divenne così nell’era della Controriforma l’oikonomia più fiorente nei Paesi latini, e in essa una pazzesca proliferazione delle più dolorose penitenze soprattutto nei monasteri femminili.
Come si riuscì a trasformare il Vangelo in una religione di sofferenze e di dolore? Come siamo stati capaci di credere all’imbroglio che il Dio Amore di Gesù fosse un “consumatore di dolori umani”, che le primizie che più gradiva fossero le nostre sofferenze? La Bibbia, Antico e Nuovo Testamento, sapeva che le divinità che amano il sangue dei figli si chiamano idoli. Il Dio biblico, il Dio di Gesù, non è un idolo perché non consuma il dolore dei suoi figli e figlie, perché non lo vuole aumentare ma ridurre. “Misericordia voglio, non sacrificio”, ci ripetono Osea e Gesù, che sapevano bene che la logica del sacrificio e quella dell’hesed e dell’agape sono incompatibili. Il Dio biblico non ama i sacrifici perché ama noi. Il sacrificio è parola ambivalente anche nei rapporti umani – è sbagliato leggere il tuo amore per me come tua disponibilità a sacrificarti – ma è davvero molto pericoloso quando viene utilizzato per intendere il rapporto con Dio, perché lo trasformiamo in un idolo.
«Ho perduto il merito di tanti digiuni, di tante mortificazioni… oh che infelice» (ivi, p. 71), leggiamo ancora negli Esercizi spirituali per monache. Al sacrificio è infatti associata una teologia del merito, altra parola combattuta dalla Riforma (e quindi molto amata dalla Controriforma). I sacrifici creano e aumentano i meriti: «Ma i vantaggi più luminosi per gli amanti di questa virtù verginale sono riservati per l’altra vita. I vergini in paradiso saranno più felici» (Quaresimale per le monache, cit., p. 79). La vita terrena diventa, dunque, una sorta di eterna palestra dove dobbiamo soffrire negli allenamenti per meritarsi future possibili vittorie nelle gare nei campi elisi.
Da questo punto di vista, la Controriforma non ha generato una idea di Dio come nostro liberatore e primo “Goel” (Giobbe, Rut), il mallevadore che alza la mano per salvarci dai dolori evitabili della terra. Quella idea di Dio ha complicato la vita agli uomini, ancor più alle donne. La vita religiosa è stata presentata come un lungo e costante sacrificio per meritarsi il paradiso, sotto la costante visione dell’inferno: «Si porti ora ciascuna di voi in quel carcere penosissimo, in cui ritenute vengono le anime ribelli. Udrà gli urli, le smanie e le disperate grida. Con questa sì tetra immagine avanti gli occhi incominciate ciascuna di voi a meditare …» (Esercizi spirituali…, cit., p. 124). Il dolore veniva incoraggiato perché “divina moneta” per lucrare meriti per noi e per gli altri: «Tra i beni grandissimi che produce la confessione il primo è il dolore. Essendo la confessione un processo, dove la penitente è la rea e il Sacerdote è il giudice» (Ivi, p. 128). E così, il messaggio di amore reciproco, di gratuità e di compassione del vangelo restava sempre più sullo sfondo di una teologia e pratica dolorista, non del tutto superata - Marco il nipotino di una mia collega, nel giorno della sua prima confessione si è inceppato proprio mentre recitava: “perché peccando ho meritato i tuoi castighi”.
Significativi sono i nomi scelti per le bambine nei Paesi cattolici dei secoli scorsi: Dolores, Mercedes, Addolorata, Catena, Crocifissa, e i nomi delle Congregazioni femminili in età della Controriforma: suore vittime, crocifisse, schiave, umiliate … E così, i cattolici, le cattoliche, hanno fatto troppe volte l’esperienza di un Dio che stava dalla parte sbagliata, che voleva la loro sofferenza nell’al di qua magari per premiarla nell’al di là. Oggi la teologia cattolica ha finalmente preso le distanze dalla teologia dell’espiazione e dalla lettura sacrificale della passione di Cristo: «Altrimenti si rischia di non indirizzare lo sguardo nella direzione giusta del mistero di Dio» (Giovanni Ferretti, Ripensare evangelicamente il sacrificio, 2017). La logica del sacrificio va trasformata nella logica del dono, che è il suo opposto perché tutta gratuità.
Ma intanto sarebbe necessaria una vera purificazione della memoria della Chiesa cattolica, soprattutto per quanto accaduto nei monasteri e conventi femminili. Abbiamo chiesto tardivamente scusa a Galileo Galilei; ci sono decine di migliaia di vittime che attendono da troppo tempo le nostre scuse collettive dopo quelle solenni e accorate di san Giovanni Paolo II nel Grande Giubileo del Duemila alle quali, qui, aggiungo le mie. I dolori nel mondo esistono e la civiltà umana deve far di tutto per ridurli, e Dio – il Dio rivelato in Gesù Cristo – è il primo a volerlo. Quando il dolore arriva occorre viverlo nel modo eticamente e spiritualmente migliore, ma guai pensare e dire che è Dio a mandarcelo o che lo gradisce.
Le implicazioni civili ed economiche sono anche qui notevoli. L’idea della meritocrazia nasce negli Stati Uniti e poi da lì è stata esportata ovunque. Nasce in un ambiente di matrice calvinista, dunque anti-merito, che ha secolarizzato il merito e lo ha trasformato in categoria economica. Ma non deve stupirci che i Paesi cattolici sono quelli più entusiasti per la meritocrazia: l’Italia di oggi ha inserito la parola “merito” addirittura nel nome del Ministero dell’Istruzione. La teologia basata sull’accoppiata sacrificio-merito produce poi una visione commerciale di Dio e della vita. Più ti sacrifichi più otterrai: Dio diventa un contabile passivo di debiti e crediti, e la gratuità-grazia esce di scena in un mondo pelagiano dove ci salviamo da soli, lucrando meriti con la moneta delle sofferenze. Ma c’è di più. La categoria di merito legato al sacrificio ha prodotto l’idea che la virtù abbia bisogno di sacrificio e di sofferenza e che i veri meriti sono quelli che ci guadagnano il paradiso o il purgatorio. Quindi le ricompense più preziose per il sacrificio non sono i salari, il vil denaro.
Da qui è stato veloce arrivare a dire che le occupazioni a prevalenza femminile – come scuola, cura, servizi, lavori delle consacrate – non vanno pagate troppo, perché altrimenti col denaro si riduce la purezza del “sacrificio” e dei suoi veri meriti: «Il frutto delle ricchezze sta nel disprezzarle. Il precipuo intendimento di Dio nel concedere le ricchezze è che noi ne caviamo merito e interesse per l’altra vita» (Fenoglio, La vera madre, cit., p. 248). Torna il grande tema dell’eccessivo e asimmetrico peso portato dalle donne. Nella Gaia scienza di Nietzsche, l’uomo folle annuncia, come grido disperato, che “Dio è morto” e che “siamo stati noi a ucciderlo”. Siamo dentro una civiltà che ha decretato la morte di Dio, lo vediamo tutti i giorni. Ma ci può essere una luce dentro questa notte, che voglio esprimere come domanda sussurrata: E se il “dio morto” fosse quel dio troppo lontano dal cuore delle donne e degli uomini? E se allora questa morte custodisse l’alba di una resurrezione?
l.bruni@lumsa.it