Coronavirus. E parlare un po’ anche dell’università?
Decidere si decide poco o comunque non abbastanza, ma se non altro di scuola in questi giorni si parla, e si parla anche molto. Sull’università, invece, sembra che nessuno abbia nulla da dire. E sì che sui media non si sono mai visti così tanti cattedratici come negli ultimi mesi, non si è mai registrata così tanta attenzione per affiliazioni accademiche, sedi di specializzazione e addirittura classi di concorso.
Peccato che il discorso pubblico sull’università si fermi qui, alla rassegna di pareri e valutazioni che non solo entrano talvolta in conflitto tra di loro, come prevedibile, ma che non di rado sconfinano nell’impuntatura, nella rivendicazione di autorità, nel fatto personale. Sul sistema universitario, intanto, sembra essere sceso il silenzio. Si esprime il ministro Manfredi, ovvio, e qualche voce isolata ogni tanto, ma mai un coro come quelli che si levano quando sono in gioco restrizioni o riaperture in altri ambiti, dalla ristorazione agli impianti sciistici. È giusto così, intendiamoci, perché ogni realtà ha diritto a veder riconosciuto il proprio ruolo, salvaguardata la dignità, garantita la sopravvivenza.
Ma è questo stesso quadro generale a rendere ancor più incomprensibile il disinteresse per l’università, che costituisce il più cospicuo investimento del Paese in termini di competenze e di innovazione: in una parola, di futuro. Anche qui occorre fare chiarezza. Non stiamo sostenendo che le università stiano rinunciando al proprio compito, tanto meno che siano paralizzate o inadempienti.
Anche prima del passaggio pressoché generalizzato alla didattica a distanza, ciascun ateneo ha affrontato il nuovo anno accademico come ha potuto e meglio che potuto, pur scontrandosi con un duplice paradosso: da un lato il trabocchetto di un’autonomia che, assicurando ampi margini di discrezionalità, accresce le responsabilità ed eventualmente le aggrava; sull’altro versante, il divario tecnologico tra istituzioni di forte tradizione e consolidato prestigio, ma ancora impreparate a gestire il cambiamento, e le più recenti e meno radicate università telematiche, che hanno investito in maniera consistente sull’efficacia delle infrastrutture e dei linguaggi digitali.
Un panorama molto diversificato, che difficilmente si riesce a ricondurre a un progetto unitario. Eppure è proprio di questo che, oggi più che mai, il Paese avrebbe bisogno, e cioè di una visione che si traduca in sensibilità condivisa. Di scuola si parla molto, dicevamo, e per i motivi più disparati, che possono essere ricondotti alla legittima preoccupazione nei confronti dello sviluppo di bambini, ragazzi e adolescenti.
Gli universitari, invece, paiono abbandonati dall’opinione pubblica. Forse perché sono abbastanza grandi, in grado di cavarsela da soli? Le statistiche ci ricordano che non è vero. Già prima dell’emergenza, i dati Istat relativi al 2019 rilevavano in Italia una quota di laureati pari al 19,3%, drammaticamente al di sotto della media europea del 33,2%. Su questa carenza di preparazione pesa in modo consistente il fenomeno dei cosiddetti Neet, i giovani che non lavorano, non studiano né sono inseriti in altri percorsi di formazione, e che lo scorso anno rappresentavano il 22,2% della popolazione tra i 15 e 29 anni.
Di loro, che già credevano poco nel futuro prima della Covid- 19, bisognerebbe occuparsi. Dei Neet e dei loro coetanei che invece nel futuro ci credono, si impegnano nello studio, sono appassionati di conoscenza e desiderosi di competenza. In Italia, per fortuna, da tempo l’accesso all’università non è più un privilegio. Riguarda tutti, è per il bene di tutti. Tutti dovrebbero prendersene cura ed essere un po’ in pensiero per la sua sorte. Se non altro, potrebbero parlarne di più.