Opinioni

Conquiste civili a rischio. E ora in Afghanistan l'Italia resti dalla parte della pace

Laura Garavini venerdì 2 luglio 2021

Caro direttore, è scesa la bandiera, si sono spente le luci: la nostra missione in Afghanistan ha fatto ritorno in Italia. Dopo vent’anni di impegno sul posto. Due decenni durante i quali le nostre donne e i nostri uomini hanno costruito ponti e strade. Hanno avviato corsi di formazione per quelle ragazze afghane che erano state estromesse dalle scuole dal regime taleban.

E soprattutto hanno salvato vite umane. Anche a scapito della propria. Come accaduto a 53 nostri soldati, che oggi non possono riabbracciare i propri cari. Siamo orgogliosi e riconoscenti ai nostri militari, perché con coraggio e dedizione hanno lavorato in un luogo estremamente pericoloso. Per riportare vita e democrazia là dove i taleban chiudevano perfino i cinema, in un fanatismo ideologico basato su violenza e soprusi. Proprio perché il sacrificio di chi ha partecipato alla missione italiana non sia vano, bisogna continuare l’impegno a favore della stabilizzazione di quel territorio. Anche adesso. Anche a distanza. Perché mentre le nostre truppe se ne vanno, ciò che resta non è un territorio pacificato. I taleban si sono rafforzati: sia dal ritiro dei contingenti internazionali, sia dall’accordo sottoscritto con Trump, che ha di fatto estromesso e delegittimato il governo ufficiale. Facendolo apparire ancora più debole, e facile preda delle instabilità locali. L’intesa bilaterale tra taleban e Washington, firmata a Doha nel febbraio 2020, ha messo fine al conflitto tra americani e guerriglia in turbante nero.

Ma non a quello tra taleban e forze governative. È dunque comprensibile la preoccupazione di tanti in Afghanistan. Che temono il ripristino di un regime oscurantista e di ritorsioni vendicative. Rispettiamo la scelta intrapresa di ritirare le nostre truppe dall’Afghanistan perché siamo consapevoli che viene esercitata nel solco di quell’Alleanza Atlantica che il nostro Paese sta recuperando con l’attuale Governo, dopo una passata fase di ambiguità nei rapporti di politica estera. Eppure non possiamo che rilevare i pericoli che si insinuano dietro questa decisione. Temiamo che sia prematura e che possa dare il via a una nuova ondata di odio nel Paese. Ecco perché è necessario che la nostra partenza non segni la fine del nostro appoggio al popolo afghano. Conforta il fatto che la Nato abbia confermato la continuità del proprio sostegno finanziario alle forze di sicurezza e di difesa nazionali afghane. Così come il mantenimento di rapporti diplomatici attraverso l’ufficio di un Alto rappresentante civile a Kabul. E finanziamenti ad hoc per il funzionamento dell’aeroporto internazionale di Hamid Karzai. Ma è importante che, al pari della Nato, anche i singoli attori internazionali non lascino solo il popolo afghano.

Tantomeno noi, che per venti anni abbiamo profuso impegno a favore del progresso locale, inviando complessivamente oltre 50mila soldati, che hanno dedicato parte della loro vita alla stabilizzazione del Paese. È il momento di aprire un nuovo capitolo, confermando il nostro impegno a perseguire la pace e promuovere la sicurezza interna e internazionale. Per salvaguardare le conquiste faticosamente raggiunte grazie alla nostra missione. E per evitare che l’Afghanistan diventi un serbatoio di possibili futuri attacchi terroristici. Gli afghani, e soprattutto le afghane, non se lo meritano. E neanche le donne e uomini delle nostre Forze armate, che in questi anni tanto impegno e dedizione hanno profuso, per la stabilizzazione dell’Afghanistan.

Vicepresidente Commissione Affari Esteri del Senato