Avvio di de-escalation in Ucraina. E così tutto non è perduto
Con la pace niente è perduto, con la guerra tutto può esserlo. Non è mai retorico ripetere l’ammonimento di Benedetto XV durante il primo conflitto mondiale. Vale anche oggi nell’Est dell’Europa, con i carri armati russi ammassati sul confine ucraino e l’Occidente che minaccia ritorsioni per la possibile invasione. Il parziale raffreddarsi della crisi nelle ultime ore, grazie a un frenetico lavorìo diplomatico, fa tirare un primo sospiro di sollievo, ma impone di riflettere su un confronto che non finirà in queste settimane, anche se Mosca ritirerà le truppe minacciosamente dispiegate.
Nell’escalation militare che sta spaventando il mondo c’è un’asimmetria di trasparenza: pochi, anche in Russia, sanno qual è l’obiettivo finale di Putin (seppure la sua strategia possa essere intuita), mentre i governi della Nato sono obbligati a dichiarare le proprie mosse alle opinioni pubbliche nazionali. Questo non garantisce che i leader agiscano per il meglio né che le preoccupazioni dei cittadini siano prese sempre in considerazione. Ma ciò fa sì che le opzioni si riducano per gli uni e restino invece più aperte per l’altro. È questo il motivo per cui la trattativa resta difficile e la partita non si chiuderà ora. Il Cremlino era davvero pronto a invadere l’Ucraina o ha giocato una pericolosa partita a poker? Forzargli la mano poteva essere un gioco altrettanto rischioso. L’esito, per ora, è il passo indietro dei cannoni, non l’esaurimento del contenzioso. La posta in palio va oltre la collocazione geopolitica dell’Ucraina. Che non entrerà nella Nato né ora né a breve termine. Un risultato, dunque, Putin lo ha ottenuto.
È però probabile che ambisca a una posta maggiore. Un’area di influenza russa di nuovo allargata a ovest dei suoi confini. La neutralità non è mai un male, la condizione da Paese 'cuscinetto' invece sì. Soprattutto se questa condizione coincidesse con un cambio indotto di governo a Kiev, prima o dopo l’annessione alla Russia del Donbass e di altre zone indipendentiste, come il Parlamento russo ha chiesto proprio ieri. L’Alleanza Atlantica, pur con toni e coinvolgimenti diversi da parte dei suoi membri, ha fatto muro alle minacce alla sovranità e all’integrità territoriale ucraina.
Lo spettro di pesanti sanzioni economiche, anche (forse) a costo di ripercussioni sulle vitali forniture energetiche all’Occidente, ha probabilmente aiutato la diplomazia che, quand’è totalmente disarmata, non sempre disarma. Gli annunci della Casa Bianca sulle probabili mosse russe hanno complicato i piani di Mosca, che non poteva confermare le previsioni dell’avversario in una narrazione in cui era dipinta in termini di aggressività ed espansionismo. L’apertura al dialogo adesso diventa l’occasione da cogliere e la vera sfida da vincere.
Come scrisse lo stesso Benedetto XV sulle macerie della Grande guerra, la pace non è solida «se insieme non si sopiscano gli odi e le inimicizie per mezzo di una riconciliazione basata sulla carità vicendevole». Riannodare le relazioni con la Russia su un piano paritario può essere l’interesse di lungo periodo di un’Europa che nella crisi ha ritrovato una certa vitalità politica (sebbene frammentata tra i leader e non ancora sufficientemente accentrata nelle istituzioni comunitarie). Qui le consonanze con l’America di Biden potrebbero affievolirsi, dato che Washington ha un’agenda diversa e interessi orientati soprattutto sul quadrante del Pacifico.
Non è un mistero che gli esiti del braccio di ferro siano osservati con attenzione anche a Pechino dove, certo con modalità e tempi differenti da quelli temuti per l’Ucraina, si mira a un ricongiungimento di Taiwan alla madre patria, con le buone o con le cattive. La fermezza di fronte a tutti gli espansionismi che non rispettano le volontà dei popoli è una virtù che le democrazie dovrebbero sempre esibire. Dal principio astratto, tuttavia, si deve poi passare al piano concreto sul quale bene e male tendono inevitabilmente a mescolarsi. Tutelare l’Ucraina non significa pertanto permettere che i nazionalisti prendano il sopravvento riaccendendo il conflitto a bassa intensità nelle aree contese.
Né consentire a Putin di condurre azioni coperte – dalla disinformazione sistematica ai cyberat- tacchi – in parallelo alla volontà di riaprire i negoziati sulle zone di influenza e sugli armamenti nucleari. Se davvero abbiamo superato i rischi peggiori di una guerra, dobbiamo ora costruire nuove, realistiche relazioni per un Continente che sappia continuare quella pace che ha saputo apprezzare e proteggere dopo una delle peggiori distruzioni della storia.
La prudenza attiva di Berlino nella crisi, da qualcuno criticata come figlia di un ristretto tornaconto economico legato al gasdotto NorthStream2, è invece da leggersi come il portato di una vicenda recente e mai obliabile che l’ha vista tragicamente protagonista. L’errore fatale sarebbe adesso quello di non perseguire un equilibrio più stabile una volta calata la tensione, tentazione tanto più forte per l’Italia spesso ripiegata sulle vicende domestiche e poco attenta alle vicende internazionali, capaci in realtà di stravolgere tanti piani di piccolo cabotaggio come l’impennata dei prezzi del gas ha ampiamente dimostrato.