Più libri e (forse) un'altra politica. Due mosse giuste
Una risposta a chi voleva bruciare le librerie, ricorda via Twitter il presidente del Consiglio Enrico Letta alludendo all’episodio accaduto martedì a Savona, dove un drappello di manifestanti fuori controllo ha minacciato un’azione in stile Bebelplatz. Non è un marchio di abbigliamento, ma il nome assunto nel dopoguerra dalla piazza di Berlino adoperata nel 1933 dai nazisti per allestire un bel falò di «letteratura degenerata». Pessimo segno, quando si bruciano i libri. Ottimo segno, quando ai libri si riconosce un valore simbolico e, insieme, economico. Da qui, nella giornata di ieri, le dichiarazioni convergenti – ed entrambe entusiastiche – del ministro per i Beni culturali, Massimo Bray, e del presidente dell’Associazione italiana editori, Marco Polillo. Il primo può rivendicare l’efficacia del suo “Piano nazionale per la lettura” che fino all’altro giorno rischiava di rimanere nel limbo delle buone intenzioni. Il secondo scorge la possibilità di un serio incentivo per un settore industriale che come e più di altri sta scontando il peso della crisi.
Non c’è da stupirsi, del resto, visto che l’idea della lettura diffusa da qualche tempo in qua è quella di un innocuo divertimento o, peggio, di un rinunciabile diversivo rispetto. Un passatempo, insomma, inspiegabilmente più impegnativo degli altri e finora anche abbastanza costoso. Leggere, in realtà, serve ad altro. A costruire una coscienza comune, concetto che non implica l’imposizione di un pensiero unico ma, al contrario, l’educazione al disaccordo. Si legge per non cadere in semplificazioni indebite e per non lasciarsi spaventare dalla complessità del grande mondo che sta là fuori, oltre i nostri pregiudizi e oltre i luoghi comuni ai quali si aderisce per sfinimento. La concomitanza sarà forse casuale, però resta comunque significativo che questo concreto aiuto alla lettura (e ai lettori) sia stato approvato nello stesso giorno in cui il Governo ha sancito l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, sottraendo ai demagoghi dell’antipolitica uno dei loro argomenti polemici prediletti.Da una parte c’è l’Italia così come l’abbiamo conosciuta negli ultimi decenni, insofferente e scamiciata, sempre pronta a dare sulla voce all’avversario. Dall’altra c’è l’Italia così come potrebbe diventare: un Paese passionale, ci mancherebbe altro, ma capace di stemperare i suoi furori nei rigori di un’argomentazione che sia, se non altro, ben condotta sul piano della logica.
Pinocchio, tanto per cambiare, è indeciso sulla direzione da prendere. A scuola teme di annoiarsi, ma ormai perfino lui ha imparato che a seguire Lucignolo c’è da finire trasformati in un asino. Potrebbe aiutarlo, probabilmente, sapere che quello che da noi si chiama “populismo” nelle lingue anglosassoni va sotto il nome di know-nothing: è l’atteggiamento di chi, non accontentandosi di essere ignorante, rivendica quella stessa ignoranza come un vanto, una bandiera, addirittura un programma politico. Che poi l’isteria anti-istituzionale abbia prodotto in Italia una discreta serie di libri di successo è uno di quei paradossi che rivelano molto del nostro carattere nazionale. E lasciano intendere, volendo, che non tutti i furbi hanno un seggio a Palazzo.