Dopo il referendum. Due chiavi di futuro: partecipazione e presenza
Dopo il referendum. Sfide per tutta la politica e, di più, per i credenti Caro direttore, parto da una nota positiva già sottolineata dal giornale che lei dirige: i molti dibattiti di questi giorni, che hanno coinvolto anche parrocchie e associazioni, sono da considerarsi utili, hanno riportato tante persone a parlare di politica, di istituzioni, di Costituzione. Il referendum del 4 dicembre ha espresso un voto chiaro e ci consegna oggi la responsabilità di operare in un difficile quadro politico. Sullo sfondo, infatti, sta uno scenario che non può che preoccupare: la lunga transizione italiana non è finita e ci presenta una situazione in cui, da un lato le istituzioni, anche a causa della crisi della politica, vivono una sorta di mutazione di fatto con il rischio che spesso travalichino nell’esercizio dei rispettivi ruoli e, dall’altro, cresce la diffidenza popolare nei loro confronti.
La 'democrazia del pubblico' ha prodotto una crisi di fiducia che, nella debolezza della politica, ha investito le stesse istituzioni repubblicane. Le riforme, le modifiche delle regole, da sole non hanno la possibilità di risolvere i problemi: questo è il compito della politica. Va ricostruito un rapporto di fiducia tra cittadini e istituzioni e rianimata una partecipazione residuale, sempre più sfiduciata. Sono necessarie idee e persone credibili; serve una nuova stagione di impegno.
Queste preoccupazioni ci chiedono di spingere lo sguardo oltre la consultazione referendaria, tenendo conto dell’indicazione popolare, per continuare quel confronto che si è aperto in questa occasione e per individuare strade percorribili. Tema centrale è la crisi della democrazia rappresentativa, che chiede di ripensare gli strumenti che consentono e sostengono la partecipazione, a partire dai sistemi elettorali ma anche dai partiti e, per altro verso, dai sindacati. Segnalo due aspetti. Bisogna ripensare i partiti. Venuto meno l’elemento identitario, proprio delle ideologie e degli schieramenti di un tempo, cambiati i tempi e i modi (anche virtualmente pervasivi) della comunicazione e della partecipazione politica, non ci sono solo opportunità nuove.
Ciò che stiamo sperimentando ci dice che dobbiamo anche temere una degenerazione che imprime una spinta disgregatrice del tessuto politico; contribuisce a delegittimare la politica con il rischio sempre più evidente che i partiti diventino solo comitati elettorali senza una vita propria, le istituzioni vengano percorse periodicamente, a seguito dei cambi di potere personale al vertice, da caratteri trasformistici, familistici o di lobby, oppure catalizzatori di proteste e di rabbia. Una proposta di legge riferita ai partiti è già passata alla Camera e ora attende il passaggio al Senato. È un tema cui dare attenzione. Vi è poi un aspetto, solo in apparenza secondario, che ci chiede di riflettere sulla presenza che, come credenti, abbiamo nello scenario politico del nostro Paese. Pur riconoscendo che, nell’attuale contesto, non vi sono le condizioni per una presenza identitaria, anche alla luce dell’esperienza fatta in questa legislatura, ritengo che dobbiamo considerare come urgente l’individuazione di un luogo, dove far crescere, nel confronto fra diverse sensibilità, una elaborazione di contenuti politici da offrire al dibattito.
Ne discutiamo spesso, ma oggi dobbiamo riconoscerne l’urgenza. La crisi cui mi riferisco riguarda, con ogni evidenza, tutti e tutti sono chiamati a concorrere, responsabilmente, a una soluzione che assicuri le condizioni per lo sviluppo a partire dalla stabilità. A quanti sono partecipi del vissuto ecclesiale, in varie forme e organizzazioni (dalle associazioni ecclesiali ai nuovi movimenti, dalla Caritas ai tanti soggetti del volontariato), la soluzione della crisi della democrazia deve stare particolarmente a cuore, in quanto a pagarne il prezzo è sì l’intero Paese ma, in primo luogo, i soggetti più deboli, più poveri, più marginali.
*Deputato del Pd