Bilancio-monito di Obama, mosse di Trump. Due Americhe, una gran domanda
Due Americhe si sono confrontate a poche ore di distanza con il discorso di addio di Barack Obama e la prima conferenza stampa di Donald Trump. Sono Americhe che convivono e che continueranno a stare una accanto all’altra dentro la società e i confini degli Stati Uniti. Ma solo una, per una manciata di voti lo scorso 8 novembre, ha preso il comando e sarà il volto interno e mondiale della superpotenza per i prossimi 4 anni. Il saluto del presidente uscente è stato definito un elegante avvertimento, un bilancio orgoglioso con toni alti, che ha reso omaggio alla democrazia Usa, capace di una serena transizione «fra leader liberamente eletti», ma oggi sottoposta ad almeno tre sfide.
Le disuguaglianze economiche – ciò che più di tutto probabilmente è costato la vittoria a Hillary Clinton –, le divisioni razziali e la chiusura di spezzoni del Paese in 'bolle' nelle quali le opinioni non sono più ancorate a qualche dato di fatto, bensì vengono alimentate da pregiudizi e da conferme di chi sta già dalla propria parte. Sono i mali che hanno segnato anche i lunghi mesi della campagna elettorale 2016 e dai quali l’America (tutta) non uscirà facilmente. Obama ha potuto rivendicare 75 mesi di aumento costante dell’occupazione, con 15 milioni di posti di lavoro creati dal 2010. Ma i critici (l’altra America) hanno buon gioco a evidenziare che sono impieghi mal pagati, poco gratificanti, precari o part time.
Quando l’inquilino uscente della Casa Bianca elenca i successi in politica estera – dal disgelo con Cuba all’accordo sul nucleare con l’Iran all’eliminazione di Benladen, la mente dell’11 settembre – si sente ribattere che ormai il nemico è il Daesh ('creato' proprio dall’Amministrazione democratica, come ha ribadito Trump), che con Teheran ci si è arresi al nemico e che ai Castro non si dovevano fare concessioni. E se Obama ricorda l’estensione dell’assicurazione sanitaria a 20 milioni di cittadini e l’introduzione del matrimonio gay, raccoglie l’ovazione dei 18mila riuniti al McCormick Place di Chicago, ma anche i fischi di chi, nell’altra America, è pronto a cancellare la riforma e non condivide le aperture sui 'diritti civili'.
Lo stile sintetico e per nulla paludato dei tweet (e delle risposte) del presidente eletto manifesta icasticamente l’urgenza, e lo sguardo più concentrato a pochi problemi, del Paese che ha votato e che sostiene Trump. Sarò il leader che darà vita a più lavoro, ha detto ieri. Ma gran parte del dialogo con i giornalisti è stato costretto a dedicarlo ai suoi rapporti con la Russia.
«Sì, c’era anche Mosca dietro gli hacker», ha ammesso, vantando però l’amicizia con Putin e ponendola come un elemento totalmente positivo. Tuttavia, l’ombra di un’ipoteca del Cremlino sul suo mandato continua ad aleggiare pesantemente. Voci di armi di ricatto in mano agli ex nemici di sempre cominciano già a circolare, e lo stesso Trump ha sperimentato quanto le smentite, pur recise e circostanziate, rischino di essere inefficaci in una fase di 'post-verità'. Il meccanismo che in qualche modo ha messo in moto con la sua corsa di outsider della politica 'a fianco della gente' rischia ora di ritorcersi contro di lui. E contro tutti, in realtà. Le due Americhe possono diventare ancora più lontane se si nutrono di propaganda e interpretazioni che prescindono dai fatti. Una consapevolezza che Obama aveva già manifestato al momento di elencare quelli che considera i rimpianti dei suoi otto anni da comandante in capo. Uno di essi è la 'partisanship', lo spirito partigiano, la faziosità, che alza muri davanti a chi dissente invece di gettare ponti di dialogo. Un virus che nella forma populistica sta percorrendo e minacciando l’Europa, rispetto al quale gli Stati Uniti sembravano maggiormente immunizzati.
Non così oggi. E l’immagine del contagio si fa concreta per analogia alla notizia che Robert Kennedy Jr., nipote dell’ex presidente e uno dei principali sostenitori delle campagne anti-vaccini negli Usa, sarebbe stato sondato da Trump come possibile responsabile di una commissione sulla sicurezza delle vaccinazioni. Dare fiato a una post-verità che può costare vite umane non più protette contro malattie controllabili rischia di essere una imprevista conseguenza della 'partisanship' che separa le due Americhe. È ancora presto per giudicare se quello che lascia Obama è davvero un Paese migliore, dobbiamo augurarci, per tutti, che i primi 100 giorni del nuovo presidente non siano l’avvio di un’Amministrazione che lo renda sicuramente peggiore.