Che cosa vuol dire morire a sedici anni, nel cuore di una festa che doveva accendere la notte di vacanza di musica e di gioia, in compagnia degli amici; morire non per sventura o destino avverso, ma per l’irrompere di una parola killer, la droga, sotto forma di una piccola pasticca o fiala di veleno, seducente e micidiale. Che cosa vuol dire riportare all’alba sulle ginocchia d’una madre un figlio morto, tra le braccia di un padre un figlio ucciso da una sostanza chimica i cui componenti egli saprebbe, nella sua scienza, nominare (methylene-dioxy-meth-amphetamine) e maledire. Che cosa vuol dire per i compagni, i conoscenti, per un’intera città lo sbigottimento del lutto incredibile, per quello studente liceale modello, atletico, appassionato, di famiglia bravissima. Un adolescente che muore di droga è una tragedia. Anzi, un delitto.Il delitto, tecnicamente, lo fiutano i carabinieri che sono risaliti a chi aveva procurato la dose di ecstasy: un altro ragazzo, ora disperato. Sembra dunque non una storia inquadrabile nello spaccio, nel mondo losco dei trafficanti, sembra una storia di micro circolazione di dosi fra consumatori occasionali, saltuari, discontinui; qualcosa che ci siamo assuefatti stupidamente a considerare ineluttabile, se non persino tollerabile come ordinaria e veniale trasgressione (fino a legare discoteca ed ecstasy in una specie di sintagma). Ma il delitto si annida proprio in questa cornice connivente con lo sballo e la cultura dello sballo; il delitto è la persistenza della seduzione che l’andar fuori di testa è piacevole avventura sensoriale e mentale; magari una tregua, ecco, per una notte d’estate di danza e di delirio, confidando che la sostanza che invade il cervello e accende le vene si dissolva infine come una sbornia smaltita, senza lasciar troppo danno. E invece.E invece, l’odore della morte non sta soltanto tra i rischi che i componenti chimici delle droghe - tutte: pesanti o leggere - portano in sé, o per loro consistenza o per le porcherie che i fabbricanti vi aggiungono: l’odore della morte sta nella resa della volontà e dell’intelligenza alle percezioni falsate e allucinate che la droga procura. Sta nella resa dell’anima. E se la cultura dominante favorisce un clima arrendevole alla droga, impregna l’aria di miasmi che avvelenano l’anima. Questo è il delitto.Ne sono testimoni proprio quei giovani che hanno traversato per intero la fatica e il dolore di una rinascita nelle comunità terapeutiche, recuperando, prima ancora che il corpo, la propria anima devastata. Viene da loro, nello stremo dell’anabasi compiuta, la parola di una libertà recuperata a duro prezzo, che accusa e rampogna quanti avevano loro additato come libertà l’ingresso nella prigione.Ora si sente parlare di un Intergruppo parlamentare che si mescola per legalizzare la marijuana. Tanto, è leggera, dicono. E ignorano, o tacciono, gli allarmi della Società italiana di Psichiatria sui danni mentali, sui sintomi di psicosi, schizofrenia, disforia, delirio persecutorio, paranoia. Ma il proibizionismo ha sempre fallito, dicono. È vero, il solo proibizionismo non è vittorioso, e la repressione, quando la trasgressione s’è fatta costume, dà magro frutto; ma l’educazione preventiva ha altri strumenti, altro impegno, altre strategie positive che non la proibizione. Il traguardo è il coraggio della realtà, e la gioia che sta in quel coraggio; e il cammino che ci umanizza in pienezza ha bisogno di quella gioia. Questo va detto nelle scuole, nelle case, nelle strade, e nelle aule parlamentari. La "droga legale" è una parola di sconfitta; diserta la fatica della lotta educativa, si rassegna alla mentalità dei perdenti. Se lo vogliono loro, noi no, non vogliamo perdere i nostri figli, non vogliamo che i nostri figli vadano perduti.