Il carcere come ultimo temporaneo rifugio, le sbarre come protezione da più aspra minaccia, la sventura di una pena dolorosa (com’è doloroso il carcere da noi) come precario scampo dalla annunciata tortura della lapidazione a morte. Kate Omoregbe, la ragazza nigeriana che nella prigione di Castrovillari ha scontato la pena, viene messa in libertà. Fuori, fuori anche un po’ prima del tempo, come ha meritato la sua buona condotta; ma subito via, via di qua, via dall’Italia, sia riportata in Nigeria. In Nigeria Kate non ha fatto niente, è scappata per non sposare un vecchio cui l’avevano promessa, e per non cambiare fede convertendosi a forza all’islam; ma per questo, appunto, la punizione è la morte a sassate. Incivili. E noi? È pazzesco pensare che corrisponda a un meccanismo di legge nostra, cioè di nostra civiltà giuridica, consegnare questa giovane donna nelle mani del carnefice di casa sua. Da noi, ha pagato il suo debito secondo condanna (se debito ci fu, in quel vecchio processo per la droga che fu trovata nella casa dove abitava con altri); ma non è questo il punto. Il punto è che se il carcere espiato ce la restituisce pulita, e con il conto chiuso, cacciarla ora negli artigli d’una crudeltà ingiusta, che la uccide per una colpa inesistente, cioè per la propria libertà di fede, di dignità di donna, di diritto fondamentale alla vita, sarebbe un’infamia. Incivili, incivili noi, se teniamo così basso il nostro diritto da farne una simile arancia meccanica. Non è così, per fortuna. Quando la giurisprudenza affrontò le leggi che ai reati di droga avevano allacciato l’espulsione obbligatoria, i giudici mandarono gli atti alla Corte Costituzionale, e il responso fu che non era giusto, e che occorreva in concreto anche la 'pericolosità sociale'. Poi è stata la volta di leggi più aspre, e in certo modo 'colleriche', a stringer l’imbuto, come il decreto- sicurezza del 2008. Ma se la legge è fatta per l’uomo, se riflette intelligenza in luogo di insipienza, per l’uomo è civiltà trovare soluzione alle insospettate tragedie in cui ci fanno inciampare i casi infiniti della vita, in luogo di celebrare come farisaico summum jus il suicidio della giustizia. L’albero del diritto è fatto di radici, di fronde e di gemme. Non si tagliano le radici per ossequio a un ramo storto o a una gemma impura. L’impianto dei diritti umani vince su tutto, e su tutto vince la vita. Noi questa regola di civiltà ce l’abbiamo scritta chiara, e non solo nella tradizione, nella Costituzione, nella coscienza. Non solo nei trattati e nelle convenzioni internazionali sui rifugiati, sui richiedenti asilo. Ce l’abbiamo scritta per espresso nell’art. 17 di una legge del 1998 (n.40), che testualmente sancisce il divieto assoluto di espulsione o di respingimento «verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali». La legge è conosciuta come legge 'Turco-Napolitano'. Sì, ha questo nome. L’appello a Napolitano che si può firmare su internet, e che è petizione per la vita di Kate, è insieme un promemoria per la civiltà e la giustizia che fu promessa. Lui è un buon garante, la nostra legge può dare salvezza.