Opinioni

L'Italia e il destino di una donna. Dovere di civiltà

Giuseppe Anzani domenica 4 settembre 2011
Il carcere come ultimo temporaneo rifugio, le sbarre come protezione da più aspra minaccia, la sventura di una pena dolorosa (com’è doloroso il car­cere da noi) come precario scampo dal­la annunciata tortura della lapidazio­ne a morte. Kate Omoregbe, la ragaz­za nigeriana che nella prigione di Ca­strovillari ha scontato la pena, viene messa in libertà. Fuori, fuori anche un po’ prima del tempo, come ha merita­to la sua buona condotta; ma subito via, via di qua, via dall’Italia, sia ripor­tata in Nigeria. In Nigeria Kate non ha fatto niente, è scappata per non spo­sare un vecchio cui l’avevano promes­sa, e per non cambiare fede conver­tendosi a forza all’islam; ma per que­sto, appunto, la punizione è la morte a sassate. Incivili. E noi? È pazzesco pensare che corrisponda a un meccanismo di leg­ge nostra, cioè di nostra civiltà giuridi­ca, consegnare questa giovane donna nelle mani del carnefice di casa sua. Da noi, ha pagato il suo debito secondo condanna (se debito ci fu, in quel vecchio processo per la droga che fu trovata nella casa dove abitava con altri); ma non è questo il punto. Il punto è che se il carcere espiato ce la resti­tuisce pulita, e con il con­to chiuso, cacciarla ora ne­gli artigli d’una crudeltà in­giusta, che la uccide per u­na colpa inesistente, cioè per la propria libertà di fe­de, di dignità di donna, di diritto fondamentale alla vita, sarebbe un’infamia. Incivili, incivili noi, se te­niamo così basso il nostro diritto da farne una simile arancia meccanica. Non è così, per fortuna. Quando la giurisprudenza affrontò le leggi che ai rea­ti di droga avevano allac­ciato l’espulsione obbliga­toria, i giudici mandarono gli atti alla Corte Costitu­zionale, e il responso fu che non era giusto, e che occorreva in concreto an­che la 'pericolosità socia­le'. Poi è stata la volta di leggi più aspre, e in certo modo 'colleriche', a strin­ger l’imbuto, come il de­creto- sicurezza del 2008. Ma se la legge è fatta per l’uomo, se riflette intelli­genza in luogo di insipien­za, per l’uomo è civiltà tro­vare soluzione alle inso­spettate tragedie in cui ci fanno inciampare i casi in­finiti della vita, in luogo di celebrare come farisaico summum jus il suicidio della giustizia. L’albero del diritto è fatto di radici, di fronde e di gemme. Non si tagliano le radici per ossequio a un ramo storto o a una gemma impura. L’impianto dei diritti umani vince su tutto, e su tutto vince la vita. Noi questa regola di ci­viltà ce l’abbiamo scritta chiara, e non solo nella tradizione, nella Costituzio­ne, nella coscienza. Non solo nei trat­tati e nelle convenzioni internaziona­li sui rifugiati, sui richiedenti asilo. Ce l’abbiamo scritta per espresso nell’art. 17 di una legge del 1998 (n.40), che te­stualmente sancisce il divieto assolu­to di espulsione o di respingimento «verso uno Stato in cui lo straniero pos­sa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o so­ciali». La legge è conosciuta come leg­ge 'Turco-Napolitano'. Sì, ha questo nome. L’appello a Napolitano che si può firmare su internet, e che è peti­zione per la vita di Kate, è insieme un promemoria per la civiltà e la giustizia che fu promessa. Lui è un buon garan­te, la nostra legge può dare salvezza.