Analisi. Nel doppio volto dell'Iran, una strategia di espansione
Ha una geopolitica sfuggente l’Iran. Quasi un enigma, tanto più difficile da decifrare, quanto più i suoi dirigenti accumulano contraddizioni su contraddizioni. Da un lato, Teheran ha mostrato in questi anni il volto più conciliante, accondiscendendo sul dossier nucleare, dall’altro non ha accennato a rivedere decenni di politiche anti-occidentali e anti-israeliane. «Nonostante l’accordo sul nucleare, l’America rimane il Grande Satana di sempre», ammoniva nel settembre 2015 il generale Safavi, uno dei consiglieri più fidati dell’ayatollah Khamenei. Da allora in poi, lo scenario è mutato. In peggio. I conservatori americani hanno sabotato l’accordo sul nucleare. E il fossato di incomprensione fra le parti si è fatto ancora più profondo. L’Iran ci mette del suo. Proclama di volere la pace e la stabilità in Medioriente, ma attizza i roghi che la rendono impossibile, fomentando le intemperanze del mondo sciita. Sta giocando la sua partita su molti fronti. Rischiando. Si è innestato in Siria per non andarsene più. Vi ha inscenato un ruolo chiave, suggellato dalla battaglia semi-decisiva di Aleppo.
La vittoria sul campo ha consegnato a Teheran le chiavi per un’influenza longeva sul nord del paese. Una zona altamente strategica per i "persiani", tanto per la valenza storico-religiosa, quanto per il simbolismo politico. Aleppo è sempre stata approdo mediterraneo fra i principali della via della Seta, riesumata oggi dalla Cina. Nella sua provincia si ergono millenari molti santuari sacri agli sciiti, dal Mausoleo della Goccia di sangue della testa di Hussein, al Mashad ad-Dikka, per non dimenticare il Dharih Muhsin ibn al-Imam al-Hussein. Altrettanto innegabile è la portata geopolitica dell’area, soprattutto per i piani iraniani di un corridoio geografico pan-sciita fra Teheran e gli alleati storici in Siria e in Libano. Un progetto vitale, che l’Iran vagheggia da anni e che Israele aborre, temendo un accerchiamento lungo tutti i fronti, al punto da affidare per la prima volta a un militare il compito di «coordinare la campagna israeliana contro lo Stato degli Ayatollah in tutti i campi di attività». Gadi Eizenkot, numero uno della Difesa, ha da poco nominato il generale Nitzan Alon al vertice del progetto contro il programma nucleare iraniano e i suoi piani di installarsi durevolmente in Siria. Fino a pochi anni fa era spettato al capo del Mossad, Meir Dagan, gestire il "dossier iraniano", al tempo dei governi Sharon e Olmert. Ma allora si trattava di gestire solo l’intelligence e le informazioni. Oggi Israele è in guerra, implicata nei combattimenti in Siria. Ha sferrato almeno 150 raid aerei e missilistici contro le forze dell’Iran e i suoi accoliti. «La nomina di un generale per ricoprire le nuove funzioni illustra la gravità della situazione e i rischi di escalation», afferma un responsabile del ministero della Difesa israeliano.
Alon tesserà anche la trama fra i militari, l’Aman, il Mossad e gli 007 americani, dopo aver inanellato una serie di successi contro Teheran, Hezbollah e le milizie sciite in Siria, dirigendo fino a due mesi fa il dipartimento per le operazioni di Tsahal. È quasi una nemesi della storia, perché anche l’Iran soffre di una sindrome analoga di "cittadella assediata", da sempre punto di passaggio di assi di conquista poli-direzionali. Un sentimento di vulnerabilità che Teheran ha maturato in millenni di invasioni e ingerenze eterodirette, dalle conquiste macedoni del IV secolo a.C. all’operazione cibernetica ebreo-americana Stuxnet (2010), passando per il colpo di stato contro Mossadeq (operazione Ajax, 1953). Una vulnerabilità che impregna la cultura strategica iraniana e che motiva due imperativi categorici di contro-reazione: il primo consiste nel garantire la sopravvivenza e l’indipendenza della nazione ad ogni costo; il secondo punta a costruire attorno alla fortezza iraniana una zona cuscinetto, per garantirsi profondità strategica protettrice e massimizzare i desiderata atavici di grande potenza. È una tendenza in atto da anni, a prescindere dagli orientamenti ideologici. Varia solo nell’intensità e nell’approccio: più offensivo quello del fascistoide Ahmadinejad, più distensivo quello di Khatami e di Rouhani. È una storia fitta di incroci e di equilibri delicati.
L’Iran si è visto per troppo tempo al centro dei grandi giochi d’influenza altrui. È stato di volta in volta amico e nemico della Russia, cruciale negli equilibri della Guerra Fredda, cordone sanitario per contenere la grande massa sovietica. Un perno delle dottrine codificate dal grande geopolitico americano Spykman, e sposate da Kissinger e da Brzezinski. Teorie che hanno fortemente irritato l’Iran post-rivoluzionario.
Quando presero il potere, nel 1979, mullah e pasdaran cercarono di perseguire gli obiettivi di grandeur con una politica esaltata e aggressiva, foriera di guai enormi. Un’intransigenza che provocò la reazione della comunità internazionale, timorosa dei rischi che il contagio rivoluzionario avrebbe determinato per la stabilità regionale. La controreazione si espresse nel sostegno delle potenze regionali ed extraregionali all’intervento militare di Saddam Hussein nel settembre 1980. Fu l’inizio della guerra Iran-Irak, sorta di ’14-’18 mediorientale. Teheran e altre megalopoli furono bombardate da 516 missili, che Saddam non esitò ad armare con testate chimiche. I pasdaran replicarono col poco che avevano, trovando nei nordcoreani e nei siriani gli unici alleati di una guerra devastante. Sapevano che Pyongyang aveva ricevuto dal Cairo alcuni Scud-B. Si trattava di smontarli e copiarli. Nel 1986, l’aiuto finanziario iraniano permise di avviarne la produzione in serie e l’anno dopo di usarli contro l’Iraq. Ne furono sparati 120, fino all’armistizio. Era il 1988 e a Isfahan sorse il primo impianto produttivo. Una lezione della guerra e al contempo una risposta asimmetrica ai cacciabombardieri e agli armamenti ultrasofisticati che dagli Usa e dall’Europa affluivano e continuano ad affluire nei paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo e in Israele. Missili offensivi perfezionati che costituiscono oggi il perno delle forze armate iraniane, minaccia numero uno per Israele e per gli ancoraggi emiratini e sauditi, insieme agli assetti non convenzionali. Assetti che includono strumenti ideologici, come la politica pan-sciita diretta ai 70 milioni di correligionari che popolano la regione, bacino d’influenza sempiterna per l’Iran.
Ma assetti poco chiari che si tramutano in progetti utopistici di «un polo di potenza musulmano anti-imperialista». Parallelamente alla diplomazia religiosa, Teheran sfodera una diplomazia pubblica anti-americana e anti-israeliana verso le popolazioni musulmane dell’Africa nera e dell’America Latina. Una strategia di soft power che può contare su un potente arsenale di guerra irregolare, imperniato sui potentissimi servizi segreti della Vevak e dei pasdaran, con il servizio action della forza al-Qods e i diversi intermediari sciiti filo-iraniani, dalla brigata Badr, all’Hezbollah libanese e, a seconda delle convergenze opportunistiche, sui sunniti di Hamas e della Jihad islamica, che vivono più o meno sul confronto militare con Israele, senza dimenticare la costola di al-Qaeda in Afghanistan.
È la massimizzazione della strategia asimmetrica, maturata durante il conflitto con l’Iraq, e plasmata sui canoni della «guerra senza limiti» preconizzati dalla Cina. Proprio come Pechino, l’Iran cerca di proiettarsi nel circuito internazionale con un approccio multiforme, fatto di mosse e contromosse, per compensare le fragilità relative sul piano diplomatico, economico e militare, combinando gli atout in maniera più o meno prudente, pragmatica e non convenzionale. Teheran elegge la ragion di Stato a fondamento di tutto, in una logica neo-westfaliana che la vede sulla stessa lunghezza d’onda dei paesi antitetici alla supremazia occidentale, come la Russia di Vladimir Putin e la Cina di Xi Jinping. Agli occhi della dirigenza iraniana, il destino del paese è un misto di grandeur, accesso al pantheon delle grandi potenze regionali e proiezione strategica. Tessuta meticolosamente, la tela pan-regionale iraniana ha una trama che si dirama nei piani persiani di lungo termine e nel patto d’acciaio con Assad. Vedremo che cosa riserverà il futuro.