Coronavirus. Dopo la pandemia si rischia una crisi degli assetti globali
Peste, clima, demografia, commerci fermi: le analogie con il XVII secolo dicono che con l’economia sono in pericolo la pace e l’ordine internazionale
Una volta che l’emergenza sanitaria dettata dalla pandemia sarà sotto controllo, il rischio è che si apra una delle più grandi fasi di stagnazione economica degli ultimi secoli e con essa una ristrutturazione dei sistemi politici di riferimento. Il pericolo è ritrovarsi in una nuova «grande crisi generale» paragonabile a quella che gli storici definiscono la «crisi generale del XVII secolo», quando la seconda ondata pandemica di peste fu accompagnata da un profondo cambiamento degli assetti politici ed economici.
Nell’analizzare quel periodo storico, in prima battuta si fa riferimento al famoso saggio di Hobsbawm del 1954 in cui lo storico inglese presentava gli elementi che caratterizzarono la grande crisi che segnò l’inizio della transizione dal feudalesimo al capitalismo e la nascita di un nuovo sistema politico internazionale dopo la pace di Vestfalia del 1648. Hobsbawm individuava in un quadro unico alcuni elementi principali nella grande crisi e precisamente: 1) la stagnazione dei commerci; 2) la demografia in calo; 3) la clusterizzazione di alcuni conflitti violenti e di rivoluzioni. A questi possiamo aggiungere alcuni aspetti non trascurabili studiati a fondo successivamente da altri storici e scienziati sociali e precisamente: 4) la crisi finanziaria del Paese egemone; 5) il crollo dei prezzi nel commercio internazionale e dei tassi di interesse; 6) il cambiamento climatico. I medesimi elementi sono presenti anche adesso. Attualmente, se il climate change e il rallentamento demografico sono tendenze di lungo periodo, lo stesso non si può dire per conflitti violenti e rallentamento dell’economia globale che hanno subito un’accelerazione successivamente alla grande crisi finanziaria del 2008. In questa prospettiva, pertanto, la recessione globale che seguirà al coronavirus non potrà essere separata dalla grande crisi finanziaria del 2008, ricollegando in un’unica e lunga congiuntura gli effetti della pandemia di oggi al grande choc generatosi nel mercato finanziario. In questo caso il rischio è esattamente quello di doversi ritrovare in una «crisi generale del XXI secolo».
La conseguenza è che dobbiamo attenderci non solo la più grave recessione degli ultimi secoli, con un crollo inimmaginabile della capacità produttiva e un aumento mai registrato della povertà e delle disuguaglianze a livello globale, ma anche lo stravolgimento dell’ordine esistente. Già all’indomani della grande crisi del 2008, infatti, l’ordine internazionale liberale ha cominciato a dare segni di cedimento strutturale. Lo choc economico ha infatti posto sotto pressione i governi in tutto il mondo, favorendo il ritorno a processi di “chiusu- ra” economica e di deterioramento della democrazia. Negli anni successivi al 2008, in ambito economico, abbiamo assistito al ritorno al protezionismo, a guerre commerciali e alla crisi di istituzioni globali, in particolare della Wto (l’Organizzazione mondiale del commercio). In ambito politico abbiamo assistito a una diffusione di autoritarismi concretati e legittimati seppur lentamente attraverso meccanismi plebiscitari che hanno legittimato in alcuni casi un ritorno al passato su diritti e libertà fondamentali. Il caso più eclatante è probabilmente quello di Donald Trump negli Stati Uniti, ma la lista è davvero lunga e include tra gli altri Jair Bolsonaro in Brasile, Recep Tayyip Erdogan in Turchia, Rodrigo Duterte nelle Filippine, Victor Orbán in Ungheria.
I Paesi cooperino. Nessuno può pensare di “fare da solo”. Bisogna ripartire rivitalizzando istituzioni come Onu, Wto e Fmi. Il ruolo dell’Occidente - Reuters
Dal punto di vista della violenza generalizzata, abbiamo assistito all’incancrenirsi di conflitti ( Yemen e Siria su tutti) che hanno generato tragedie umanitarie prima sconosciute per ampiezza. La crisi che seguirà alla pandemia di Covid–19 potrebbe rafforzare questi processi. In queste ultime settimane, un’ulteriore chiusura economica si è già manifestata. Alla luce dell’emergenza sanitaria, molti Paesi nel mondo hanno cominciato a imporre restrizioni agli scambi e non solo ai movimenti delle persone. L’Unctad ha segnalato che gli investimenti diretti delle imprese multinazionali potrebbero subire un rallentamento intorno al 30% nel prossimo biennio. La democrazia in molte nazioni vede moltiplicarsi le sue contra- zioni e distorsioni. Il caso più noto è quello dei “pieni poteri” ottenuti da Orbán in Ungheria, nel cuore dell’Europa. Nessuna area geografica del mondo sarebbe immune da una «crisi generale del XXI secolo». In particolare, i Paesi oggi più sviluppati e democratici vedrebbero non solo un crollo degli standard economici ma anche delle proprie libertà civili. Ma probabilmente a pagare il prezzo più alto degli choc negativi in ambito economico e da questo arretramento delle democrazie, potrebbero essere le economie emergenti, i Paesi in transizione e i Paesi in via di sviluppo.
È necessario quindi pensare a una strategia di salvataggio ampia che si basi non solo su misure economiche ma anche su una “riscrittura” delle regole che informano i comportamenti degli Stati nel contesto globale e non solo dal punto di vista economico. Dall’affanno dell’ordine liberale internazionale è ormai chiaro che la ricetta dei salvataggi nazionali finanziati con debito pubblico e supportati da iniezioni di liquidità a livello globale, in alcuni casi non ha funzionato pienamente. L’errore, condiviso da molti leader politici, è stato pensare che il salvataggio dell’economia fosse più importante di quello delle istituzioni, con il loro portato di regole condivise e diritti. Ritenere anche in questo caso che da questo passaggio storico si esca esclusivamente con politiche monetarie coordinate accomodanti e con politiche fiscali espansive su base nazionale è sbagliato. Non salviamo le economie senza salvare anche la democrazia. È essenziale quindi far ripartire subito il dialogo e la cooperazione internazionali affinché gli assetti economici e gli assetti politici che conosciamo non vengano sovvertiti in maniera violenta in diverse regioni del mondo. Nessun governo può pensare di “fare da solo”. A livello globale bisogna ripartire rivitalizzando in primo luogo istituzioni come Onu e Wto, uniche organizzazioni governate su base democratica in cui i Paesi – seppur diseguali in termini di potere e influenza – hanno possibilità di ritrovare organi e istituzioni per la risoluzione delle controversie. Negli anni, in particolare, è stata sottovalutata l’importanza dell’organo di risoluzione delle controversie della Wto che potrebbe invece rivestire in futuro un ruolo cruciale. Bisogna arginare il più possibile la frenata degli scambi, il ritorno al protezionismo e la disarticolazione delle catene globali del valore. Per questo la Wto è l’organizzazione su cui concentrare gli sforzi nei prossimi anni.
Con urgenza massima, inoltre, nei prossimi mesi occorrerà riformare la governance e le pratiche del Fondo monetario internazionale per favorire una maggiore partecipazione delle economie emergenti per poi modificare in maniera significativa i diritti speciali di prelievo e soprattutto i criteri della condizionalità già criticata da anni per l’impatto negativo su disuguaglianza, salute e diritti umani, ma che adesso rischia di risultare decisamente controproducente se non addirittura disastrosa. Lo stesso Fondo dovrà essere in grado di svolgere un ruolo aggiuntivo, vale a dire quello di coordinatore per efficaci controlli dei capitali al fine di minimizzare il deflusso di capitali dai Paesi più poveri e la volatilità nei mercati finanziari. È urgente inoltre, un coordinamento globale per la stabilizzazione dei prezzi a livello mondiale in particolare per le commodity e i beni agricoli. Un’eccessiva volatilità dei prezzi delle materie prime ha effetti negativi sui mercati, sui produttori e sui consumatori. Dal lato della produzione una maggiore stabilità ha il pregio di favorire investimenti, accumulazione di capitale, mantenimento dei livelli occupazionali e aumenti di produttività. Dal lato dei consumatori, una maggiore stabilità dei prezzi serve a evitare il crollo verticale del potere d’acquisto delle fasce più povere della popolazione. Peraltro, gli choc improvvisi nei prezzi in molti casi innescano fenomeni alla violenza in aree e Paesi intrappolati in una spirale di povertà.
I veri protagonisti di questo articolato processo di salvataggio non potranno che essere le democrazie occidentali, le quali dispongono ancora delle risorse e delle “chiavi” istituzionali per avviare percorsi di questo tipo. Ma per dare una forma credibile alla cooperazione e sostanza alle misure economiche, i governi in primo luogo devono sedersi a un tavolo per bloccare i conflitti armati in corso sia elaborando soluzioni per i cessate–il–fuoco sia depotenziandoli bloccando le forniture di armi. Il mondo non può più permettersi di sostenere tragedie umanitarie come quelle in corso. Non capirlo oggi ci farebbe precipitare a grande velocità in un gorgo, il maelström della «crisi generale del XXI secolo».