Opinioni

Analisi. Cento giorni di rivoluzione in America. Ora ne restano cento per convincerla

Andrea Lavazza martedì 23 luglio 2024

Kamala Harris e Donald Trump

In ogni elezione presidenziale americana, si attende o si teme – dipende da chi ne beneficia – la October surprise, l’evento inatteso che a pochi giorni dal voto può cambiare l’intero corso della campagna presidenziale. Nel 2024 c’è stato un anticipo delle sorprese, che però hanno preso la piega di accadimenti rivoluzionari più che di inaspettate novità. Prima il dibattito anticipato fra i candidati e lo psicodramma di un presidente improvvisamente giudicato dal suo stesso partito inadatto mentalmente, a causa dell’età avanzata, a reggere la sfida per un secondo mandato. È arrivato poi il tentativo di uccidere l’aspirante inquilino della Casa Bianca, a sua volta ex presidente, che corre per la terza volta consecutiva e ha evitato la morte per un centimetro. Infine, domenica, quello che qualcuno ora non esita a definire una sorta di colpo di Stato: la pressione convergente dei democratici per imporre di fatto a Joe Biden la rinuncia al tentativo di ottenere una nuova investitura popolare.

Mancano poco più di cento giorni all’apertura dei seggi, e gli Stati Uniti non sanno ancora per certo chi sarà lo sfidante di Donald Trump il quale, con l’orecchio destro fasciato, pregusta la vittoria e fa trapelare un programma che elettrizza metà America, non dispiace alle grandi autocrazie, mentre spaventa il resto del mondo occidentale. Una fantapolitica che potrebbe stare in qualche preveggente libro di Philip Dick o in tanti esercizi distopici contemporanei alimentati dalla cronaca di una società divisa e spesso violenta (nel Libro di Talbott di Chuck Palahniuk, del 2018, per fare solo un esempio, si immagina un Paese diviso in tre regioni, quella dei bianchi, dei neri e degli LGBTQ+, con un’insurrezione in cui si uccidono e si mozzano gli orecchi ai personaggi sgraditi…).

Da qui al 5 novembre sarebbe auspicabile che la parola rimanesse ai leader e ai programmi, in un contesto libero e sereno, al quale anche dall’estero ci si possa ispirare nell’alveo della tradizione della democrazia a stelle e strisce, modello recente per tutti i Paesi. La realtà, invece, è che scossoni al processo di selezione del nuovo Comandante in capo della superpotenza globale potranno ancora arrivare. Perché non basta la benedizione di un Biden messo fuori gioco in malo modo a garantire il sostegno unanime dei democratici a Kamala Harris, vicepresidente donna e afroamericana, campionessa delle minoranze, ma avvolta in un cono d’ombra e di critiche durante questi tre anni e mezzo come numero due dell’Amministrazione. Le contestazioni si rivolgono soprattutto alla sua gestione del dossier immigrazione, dove ha scontentato la destra, che la ritiene troppo morbida e arrendevole, e la sinistra, secondo cui è stata complice delle politiche di chiusura e deportazione.

La Convention di Chicago dal 19 agosto dovrà sancirne ufficialmente la candidatura. Rimane una possibilità che si svolga una riunione aperta in cui i delegati si sentano liberi di scegliere un’altra personalità ritenuta più adatta. Sarebbe l’ultimo dei colpi di scena e un ulteriore indebolimento della credibilità dell’intero sistema, oltre che un elemento di disorientamento per gli elettori progressisti. Si dovrà analizzare a bocce ferme il processo che ha portato dal 27 giugno, data della sua disastrosa prestazione televisiva, a creare un effetto valanga senza precedenti contro Biden dentro il proprio stesso schieramento. Big del partito, grandi media e finanziatori, intellettuali e star dello spettacolo hanno sovvertito l’esito delle primarie. L’anziano leader ha resistito a lungo alle pressioni per poi cedere all’improvviso. Ora le lodi che lo sommergono per la “coraggiosa e responsabile” decisione oscurano i contorni di uno snodo decisivo per gli equilibri dei prossimi anni, comunque vadano le elezioni. L’attuale vicepresidente è la scelta in qualche misura obbligata se si vuole preservare il voto popolare, che ha premiato la continuità del ticket Biden-Harris.

Sull’altro versante, il tycoon repubblicano prova ad alzare subito la polemica, con una demolizione della persona prima che dell’esponente politica. Una tattica ben nota che alimenta la reciproca delegittimazione, praticata da entrambe le parti, ma portata al parossismo da Trump con il mancato riconoscimento del risultato del voto del novembre 2020 e la conseguente marcia sul Campidoglio del 6 gennaio 2021. Harris, libera dall’ipoteca della vecchiaia che grava sul suo mentore, riporterà i riflettori sui rischi di un quadriennio con l’accoppiata Trump-Vance, dovendo però subire il contrattacco del favorito nei sondaggi, capace di sfruttare l’insoddisfazione nazionale per il governo uscente, di cui la vicepresidente è stata parte rilevante. L’inflazione, gli stranieri irregolari, i diritti civili e le divisive norme sull’aborto saranno al centro del dibattito.

La partita non riguarda solo il capo della Casa Bianca. I timori del Partito democratico erano rivolti anche al rischio di un tracollo nel voto per il rinnovo contestuale del Congresso. Adesso, lo scontro sembra meno impari. Eppure, non si tratta solo di un duello fra partiti e progetti per la società dei prossimi anni. La questione è più ampia. Se la democrazia americana vacilla, nessuno è autorizzato a sentirsi troppo bene, nemmeno l’Europa che ha ormai superato il maestro smarritosi in una crisi profonda.