La notizia che padre Pino Puglisi, il parroco di Brancaccio ucciso diciannove anni fa dalla mafia, sarà proclamato beato, non è soltanto un motivo di grande gioia per tutto il popolo cristiano, in particolare per quello siciliano, ma acquista un profondo significato teologico e pastorale, che vale la pena di sottolineare.
Tra quanti auspicavano la beatificazione del sacerdote siciliano, ve n’erano di coloro che vedevano in lui soltanto un eroico operatore sociale e un instancabile paladino della legalità, prescindendo dalla prospettiva specificamente religiosa del suo ministero sacerdotale. Nella loro ottica, don Pino sarebbe stato un esempio di come la Chiesa possa rendersi benemerita accantonando o comunque mettendo in secondo piano il suo annuncio di una verità salvifica – fonte, ai loro occhi, di intolleranza e di divisioni –, per svolgere invece un servizio umanitario in cui tutti possono riconoscersi. Sarebbe stata questa battaglia soltanto umana a determinare la sua morte.
Riconoscendo che il martirio di don Puglisi è avvenuto
in odium fidei, in odio alla fede, la Congregazione per le cause dei santi ha messo in luce l’unilateralità di questa lettura della figura e dell’opera del prete di Brancaccio. Ciò che egli ha detto e fatto, ciò per cui è morto, non è mai stato altro che il Vangelo. Per questo è stato ucciso, proprio lui, che non era affatto il classico «prete anti-mafia » e che perciò non aveva scorta e non veniva considerato da nessuno «in prima linea».
Invece lo era, proprio perché svolgeva in tutta la sua pregnanza e il suo significato il proprio ministero di presbitero. Egli viveva la sua missione al servizio dei più emarginati, dei più deboli, di tutti coloro che non hanno voce, non «sebbene » fosse prete, o «accanto» al suo essere prete, ma 'perché' prete, in nome di quel Dio che, facendosi uomo tra gli uomini e povero tra i poveri, ha reso sacra la fragilità umana. E per questo – perché attingeva alle risorse spirituali del Vangelo – l’attività di don Pino è apparsa ai mafiosi più temibile di tutte le battaglie per la legalità e per il progresso civile condotte da tanti, pur ammirevoli, promotori del bene comune e della giustizia. Uccidendolo, i mafiosi hanno in qualche modo evidenziato l’equivoco in cui spesso sono caduti gli studiosi di Cosa nostra. Fondandosi su alcuni ritualismi e su altre somiglianze formali, essi l’hanno considerata come l’espressione di una forma di religiosità, sia pure distorta e criticabile dal punto di vista morale. La mafia, in realtà, col suo culto del potere per il potere, col suo rifiuto di ogni limite alla violenza, è una idolatria del nulla che si pone non come una deviazione etica, ma come la più radicale negazione di Dio. La sua opposizione al cristianesimo non è di ordine morale, ma teologico. E in quest’ottica essa ha ucciso non un difensore della legalità, non un servitore dello Stato, ma un sacerdote che incarnava nella sua vita e nella sua opera l’irresistibile forza salvifica del Vangelo.
Con la sua dichiarazione che don Puglisi è stato ucciso «in odio alla fede», la Chiesa ha smascherato il falso dualismo tra impegno per Dio e impegno per gli uomini e additato un modello di pastore che, per amore del primo, porta agli altri la salvezza uscendo dal recinto del tempio e di un ritualismo autoreferenziale, immergendosi nella concretezza di una data storia e di una data società. Come ha fatto don Pino Puglisi, attirandosi l’implacabile ostilità di tutti coloro che, odiando Dio, odiano anche l’uomo.