Lettere. Don Giò, come seme che muore nel profondo della terra e si moltiplica
Caro Avvenire,
sono un sacerdote che il 30 aprile scorso a Clusone ha commemorato, insieme ai suoi compagni di Messa, il suo giovane coaudiatore, don Giovanni Bertocchi, morto ad appena 29 anni nel 2004. L’evangelista Giovanni nel giorno in cui ricordavamo don Giò ci metteva davanti la missione di Gesù: «Colui che Dio ha mandato dice le parole di Dio: senza misura egli dà lo Spirito». Con questo versetto del Vangelo ho riletto dei passaggi del diario lasciatoci da don Giò, persuaso che il Vangelo e il quinto vangelo che è la vita dei santi e di ciascun essere umano, richiedono di essere rivisitati nelle varie età della vita, per vedere ciò che forse ci è sfuggito. A quattro anni dalla ordinazione don Giò passava in rassegna la propria storia: «Il Signore ha scelto me per farsi conoscere alla gente. Un domani sarò io a rendere presente Cristo nella Chiesa; sarò io a tradurre il suo amore per lui. Mi sento pronto a tutto questo?». Individuava nell’ascolto e nel dialogo con la Parola di Dio l’essenziale mappa spirituale del cristiano. «C’è una cosa che mi terrorizza […]: gli altri devono poter vedere e riconoscere in me, nei miei gesti, nelle mie parole, nella mia storia Gesù Cristo! Ma se Cristo si riducesse a ciò che io sono, l’uomo non sarebbe di certo salvo...». Le parole però hanno forza solo se scaturiscono dalla sorgente. Don Giò non si nasconde le difficoltà. Ha coscienza «di essere solo [...] uno strumento molto fragile e delicato, pronto a rompersi in ogni momento...». Sente di dover lavorare di più. Scrive: «[Mi devo] prodigare quanto più mi è possibile di farmi simile a Cristo, ma per far questo devo innanzitutto conoscerlo ed essergli intimo, lasciandomi plasmare da Lui... Signore, insegnami a pregare! ». Insegnami a pregare! È la creta che racchiude il tesoro. È la nostra condizione: siamo vasi di creta, poveri, fragili, ma possediamo un tesoro. Giovanni invocava aiuto: «Signore, ... mi dovrai proprio dare una mano...». Chiedeva aiuto perché temeva che l’abitudine lo distogliesse dal dono di sé, tanto da ricorrere a un’immagine forte: «Ti prego, se è così, di rapinarmi! Sarebbe il dono più grande che potresti farmi, se davvero fosse così ...». Don Giò ci ha lasciato giovanissimo, in un incredibile incidente. Ci accompagnano ancora le sua parole: «Signore, dilata il mio cuore, perché diventi grande; sempre più grande, come il seme. Sì, fa’ che il mio cuore sia grande come il seme! Immenso come la vita che esso, nasconde dentro di sé!».
C’è un mondo, tra le righe di questa lettera, che ho cercato di ricostruire, al telefono con don Arturo. Era parroco a Verdello, un paese bergamasco di 8.000 abitanti, quando gli mandarono come aiuto don Giovanni Bertocchi, classe 1975, figlio di Maddalena e di Pietro, medico condotto a Clusone. Don Giò, come tutti lo chiamavano, era stato ordinato a 25 anni, nel 2000. «Era instancabile, profondo, capace di affascinare i ragazzi dell’oratorio: un prete d’oro», ricorda il sacerdote. Un prete ragazzo, amatissimo dai giovani. Ma è breve la permanenza di don Giò fra i suoi amici. Il 30 aprile 2004 sta riponendo con i suoi ragazzi i materassini in palestra. Giocano a lasciarsi andare da una ringhiera, ricadendo sulla gommapiuma. È un istante: il giovane prete salta ma cade sul pavimento, si rompe le vertebre del collo. Lascia un diario, che i suoi genitori pubblicano e che ancora continua a passare di mano in mano. Colpisce la intensità del desiderio di Cristo, e quasi di esserne afferrato subito e completamente («Ti prego, se è così, di rapinarmi! Sarebbe il dono più grande che potresti farmi...»). Poi, quel giorno tragico, durante quello che sembrava il più innocuo dei giochi. Don Giò è morto giocando come un fanciullo. Il dolore dei suoi genitori, dei fratelli, dei compagni di seminario, tredici anni dopo, continua però a essere accompagnato dalle parole del diario: «Dilata il mio cuore, perché diventi grande; sempre più grande, come il seme».Corrono ancora, fra gli oratori della Bergamasca, le parole di don Giovanni. Don Arturo racconta, quasi egli stesso stupito, come nel 2013, nove anni dopo la sua morte, quattro ragazzi di Verdello siano entrati insieme in seminario. Quattro, in un paese di 8.000 anime. E tu che al telefono ascolti taci, e pensi a un seme. Un seme nel profondo della terra, che muore e si moltiplica, dando più frutto.