Albergheria, nel cuore della vecchia Palermo. Gli antichi palazzi nobiliari coi loro stemmi corrosi dal tempo danno a queste vie il sapore di una nobiltà e una bellezza perduta. Ti perdi in un dedalo di vicoli stretti con i panni stesi alle finestre, e sbuchi nel mercato di Ballarò. Una festa di colori ti avvolge: sui banchi montagne di peperoni e pomodori, rossi come non li hai visti mai, e pesce fresco, in un vivo caos già mediorientale. Mamme nere sulle soglie delle case fanno le treccine alle loro figlie; chi cammina curvo sotto il peso di un sacco enorme di cipolle, chi vende lumache, chi scope. Nel suq di Ballarò si vive poveramente, in strade sporche, ma quanto intensamente si vive: e quanti bambini nei passeggini, neri, o asiatici. Il 60% della popolazione viene da lontano: Bangladesh, Sri Lanka, Costa d’Avorio, Nigeria, dodici etnie si dividono un quartiere in larga parte abbandonato dai palermitani. E puoi incrociare fra le bancarelle, intento a far la spesa, un gigante alto 2 metri e 2 centimetri, una croce al collo su una maglietta colorata. Don Enzo Volpe è il direttore del Santa Chiara, comunità salesiana e avamposto di umanità e di fede in questa Babele. Bisogna aver le spalle larghe per fare il prete qui, pensi, ma poi consideri quelle di don Enzo, e ti pare uno che ha proprio le spalle giuste. Uno a cui, nemmeno a Ballarò, a nessuno verrebbe in mente di dare uno spintone.
Tra questi vicoli, tra chiese secentesche la cui bellezza, se entri, ti ubriaca, don Enzo si muove come ci fosse nato. In realtà è figlio di pugliesi ed è nato in Sicilia, nelle Madonie. Ma il papà aveva studiato dai salesiani, e i cinque figli, di don Bosco, cominciano a sentir parlare da piccoli. Il primo è Enzo, classe 1968. Studia al liceo salesiano San Gregorio di Catania, in collegio, e si trova a incrociare la vita con i ragazzi 'difficili' mandati ai salesiani dal Tribunale. Quel compagno alto, solido, ispira fiducia. È ancora un ragazzo, e già i coetanei cercano in lui un padre: quasi il segno di una vocazione che verrà. L’incontro determinante è quello col salesiano don Rocco Rindone, il rettore: «Mi ha dato – ricorda don Enzo oggi, seduto a un caffè a piazza Bologni – la testimonianza di un uomo di Dio. Un 'masticatore' della Parola, un uomo affascinante e molto aperto. Fu il primo a aprire, anni dopo, qui a Palermo, il Santa Chiara all’emergenza della povertà». Volpe studia filosofia alla Pontificia Università Salesiana e fa il tirocinio da educatore a Catania, a San Cristoforo: i quartieri difficili sembrano chiamarlo. Viaggia per missioni, poi torna in patria ed è animatore in un liceo cattolico. Esperienza importante: «Secondo me in una scuola cattolica, se manca il contatto con i poveri, manca tutto: potrebbe ridursi a luogo elitario, utile forse per una formazione 'alta', che però rischia di dimenticarsi la sua radice». Così, i suoi liceali don Enzo comincia a portarseli nei quartieri poveri, come volontari. Insegnante per 18 anni, Volpe arriva a Palermo come direttore del Don Bosco Ranchibile, scuola esclusiva. Quando, nel 2012, approda al Santa Chiara, si porterà come volontari alcuni ragazzi della Palermo-bene. Com’è questo suo quartiere, in cui molti palermitani non mettono piede? «È molto variegato. In alcuni palazzi restano gli ultimi eredi delle famiglie nobili, mentre le fasce popolari sono ampiamente migrate nelle periferie: Ballarò è multietnico ormai da molti anni. È stato uno dei primi luoghi in Italia ad accogliere in massa gli immigrati, prima i maghrebini e poi di ogni dove. Il quartiere è stato 'accogliente', anche se si è trattato di un’accoglienza abbastanza utilitaristica: qui c’era bisogno, per il commercio su cui Ballarò vive, di manodopera a basso costo, e in nero. Perché, vede, qui comanda il mandamento di Porta Nuova». Mandamento? Volpi si spiega meglio: «La mafia della zona di Porta Nuova: questo è un territorio in cui comandano loro». «Qui – continua – la maggior parte degli immigrati riesce ad 'arrangiarsi' e a vivere. Sono venuti ad abitare in case degradate, da cui gli italiani se ne andavano. Addirittura qui si vedono ancora alcune rovine dei bombardamenti del ’43. Non si è ricostruito perché la mafia aveva interesse alla cementificazione delle periferie. Così Ballarò è rimasto com’era, e sono arrivati gli stranieri». Il vostro lavoro? «Come salesiani curiamo innanzitutto l’oratorio, 120 ragazzi di ogni nazionalità, non facciamo alcuna distinzione. L’occuparci dei figli di tutti ci procura, nel quartiere, una grande considerazione. Poi abbiamo un asilo con 50 bambini, quasi tutti stranieri, figli di chi altrimenti non ha un posto dove lasciarli». E passando per i vicoli arriviamo al Santa Chiara: una bellissima chiesa e un grande cortile con l’immagine di Don Bosco, in cui dal 1919 i ragazzi di Palermo giocano a pallone. In un angolo c’è l’asilo. Una piccola folla chiassosa di bambini di ogni colore ci corre incontro. Mohammed, 5 anni, nero, grida al sacerdote, festoso: «Don Enzo, domani andiamo al mare!». Già, domani li portano tutti al mare. Ma ciò che ti colpisce è che questi bambini venuti dai quattro angoli del mondo parlano fra loro in italiano. La sola lingua, in cui tutti srilankesi, ghanesi, nigeriani possono intendersi. A Babele, pensi, i bambini parlano la nostra lingua. «Lei mi chiedeva poco fa – dice don Volpe – come si fa a vivere insieme fra gente tanto diversa. Beh, guardi questi bambini, è da loro che si impara. A loro viene naturale considerare il compagno un compagno, e basta. E io devo dire che qui, pure tra tanti gravi problemi, non vedo razzismo». Forse perché in un luogo in cui tanti vengono da ogni parte del mondo, nessuno è più del tutto straniero. Essere un sacerdote a Ballarò però, ammette Volpe, non è facile: «La difficoltà maggiore è nell’ignoranza umana e civile, prima ancora che religiosa, e non solo degli stranieri. Qui si tocca con mano l’incapacità di certa Palermo, del suo tessuto sociale e familiare, di educare i propri figli alle cose fondanti: il rispetto umano, prima di tutto. Qui la scuola è l’ultima frontiera della democrazia: ma i professori, a volte, ci arrivano malvolentieri, costretti. Da noi 60 volontari laici fanno doposcuola ai ragazzi. Ce ne sono, anche fra gli immigrati, di quelli che hanno talento e voglia di studiare: diventeranno, credo, medici, insegnanti... Coltivare i ragazzi può voler dire anche trovare, a Ballarò, delle perle. Per questo io vedo, in uno dei luoghi più multietnici d’Italia, un laboratorio, il germe di una nuova Italia possibile».
Cosa vi chiedono tanti stranieri, spesso non cristiani? «Il Santa Chiara era un monastero di Clarisse. La preghiera sta scritta nelle sue mura. Ci chiedono – pentecostali, induisti, islamici – un luogo in cui pregare. Noi, siamo anche questo: una casa dove si può pregare. Nella propria fede. L’altra sera c’è stato da noi un funerale ghanese. I ghanesi festeggiano l’ingresso del defunto nell’aldilà mangiando, bevendo, cantando. E io ho pensato che, se credessimo davvero nel Paradiso, dovremmo imparare da loro...». Poi, spiega,«andiamo nelle case dei ragazzi dell’oratorio, a vedere da vicino, a capire se mancano i soldi per le bollette, o di che cosa c’è bisogno. Tutti ci aprono volentieri». Che posto ha Cristo nel suo essere qui? «Anche in un luogo come questo la figura di Cristo affascina per la capacità di toccare ancora il cuore dell’uomo. Ancora Cristo sa spezzare gli schemi, e ricostruire ponti, anche con chi viene da altri mondi. Il fulcro di tutto, ciò da cui si parte è l’umanità di Cristo. In fondo è quel che faceva don Bosco con i bambini del proletariato torinese. Ragazzini che non sapevano l’italiano, alla deriva, violenti. Lui domandava: ma tu, sai fischiare? E da quel piccolo angolo di bellezza che è fischiare una canzone, appassionandosi a quei bambini, ricominciava a tessere l’umano». Due sere la settimana don Enzo accompagna una suora, Valeria, sui marciapiedi della Favorita, dove le giovanissime nigeriane si vendono. «Ragazzine di 16 anni che si comprano con 20 euro. Una terribile piaga», dice con dolore. Parla del tentativo, difficile, di riscattarle dalla tratta, terrorizzate come sono dai trafficanti. Gli si vede in faccia lo strazio per quelle bambine, vendute come cose. Ma don Enzo non si rassegna: «Si deve ricominciare dalla educazione. Bisogna dirlo a scuola ai ragazzi, che non si compra un essere umano». Fatica grande a Ballarò. Ogni mattina presto, la Messa e le lodi in comunità. Poi, il mondo bussa: bambini, mamme, ragazzi, disoccupati. Si va avanti, dice congedandosi don Enzo, «nella coscienza di non essere soli, e di condividere con tanti amici, in quest’angolo di Palermo, una profonda voglia di bene».