Opinioni

Intervista. Don Carraro (Cuamm): «Sono medico e prete felice. L'Africa come una figlia»

Antonella Mariani sabato 13 luglio 2024

Don Dante Carraro

Don Dante Carraro ha un sorriso che conquista. Aperto, diretto. A ogni domanda si concentra, perché le risposte siano sincere. Niente è formale, in questo prete asciutto, che ogni mattina macina chilometri di corsa, nei cui occhi brucia la passione per l’uomo. Un ragazzo della provincia veneta, classe 1958, un cardiologo che ha scelto il sacerdozio ispirato da Martin Luther King, e che fin da subito incontrò sulla sua strada il Cuamm-Medici con l’Africa, di cui è stato prima vicedirettore (1994-2008) e da allora direttore. Il Cuamm è una organizzazione non governativa nata nel 1950 a Padova con il programma di curare le popolazioni più derelitte e di formare medici e infermieri locali. Oggi opera in 9 Paesi (Angola, Etiopia, Mozambico, Repubblica Centrafricana, Sierra Leone, Sud Sudan, Tanzania, Uganda e Costa d’Avorio). Nel 2023, 3.500 persone, la gran parte medici e al 90% africane, hanno lavorato per il Cuamm.

Cominciamo dall’inizio. Perché Dante?
Dovevo chiamarmi Marco, ma due giorni prima che nascessi è morto un cuginetto e mi è stato dato il suo nome. Ci sono stati periodi in cui chiamarmi Dante mi disturbava, ma ho capito che nella sua originalità il mio nome si fa ricordare. E poi è il participio presente del verbo dare, colui che dà. Quindi va bene.

Com’è stata la sua infanzia?
Sono nato e cresciuto nell’ultimo paese della provincia di Venezia, al confine con quella di Padova, Mellaredo di Pianiga. Mamma figlia di commercianti benestanti, padre figlio di contadini diventato negoziante. Lei era focosa e schietta, mio padre gentile e discreto. Nel mio modo di rapportarmi alle persone ho preso da lui, ma quando mi arrabbio mi ritrovo in lei. Da mia mamma ho imparato anche la verità nelle relazioni, l’essere diretti, senza nascondersi.

Da bambino andava in chiesa?
Eccome. Mi piaceva fare il chierichetto, e quando tornavo a casa giocavo a celebrare la messa con Michela, la mia sorella più piccola. Mia mamma mi assecondava, pur con certo timore: non avrebbe mai voluto che diventassi prete.

La ostacolò?
Più o meno. Ricordo due episodi. Il parroco ogni tanto selezionava i chierichetti più sensibili e li portava in auto a visitare il seminario minore a Thiene. Avevo 10, forse 12 anni. Quando toccò a me, mia mamma non diede il permesso. Mi ricordo anche che il parroco mi dava una mancia di 30 lire quando andavo a servir messa nei giorni infrasettimanali. Lei mi disse: “Te ne do 50 se non ci vai”. E così fu.

Le spiegò mai perché?
Quando a 27 anni le comunicai che sarei entrato in seminario, mi rispose: veramente? Le chiesi perché era contraria. Perché ho conosciuto tanti preti tristi, rispose, e noiosi. La sua franchezza mi ha interpellato. Ho capito quanto preziose sono le mamme nelle verità che dicono ai figli. E ho deciso che tipo di prete non volevo essere. E che le mie prediche sarebbero state brevi. Oggi regolo l’orologio sui 5 minuti.

Dopo il liceo scientifico, come maturò l’idea di iscriversi a Medicina?
Volevo studiare qualcosa che mi portasse vicino ai poveri.

A chi si ispirava?
Avevo 15, 16 anni quando mi innamorai di Martin Luther King. Lessi i suoi discorsi, mi appassionai alle battaglie che aveva combattuto per i diritti dei più deboli, al modo in cui aveva interpretato i brani del Vangelo. La sua potenza, il suo coraggio... Quella fede che in quel periodo della mia vita si era affievolita l’avevo riconosciuta nella sua figura e nelle sue parole. Ecco, lui ha contribuito a tenere viva la mia fiammella.

Tra il liceo e l’università è stato fidanzato. Che ricordi ha di quel periodo?
C’era una ragazza della parrocchia che mi piaceva, si chiamava Marina. Per frequentarla ho ripreso ad andare in chiesa. Stavo bene con lei. Siamo stati fidanzati per un po’. Ma in fondo in fondo non mi sentivo completo. Ci siamo lasciati, ma ci vedevamo ancora, entrambi eravamo impegnati in parrocchia. Tra noi c’era affetto. Dopo qualche tempo, eravamo sul punto di rimetterci insieme. Avevamo un appuntamento per parlarci. Ma quella sera lei ebbe un incidente stradale e purtroppo tre giorni dopo morì. Per me è un mistero: non so come sarebbe andata la mia vita se non fosse accaduta quella disgrazia. Marina è riuscita a toccare corde molto profonde di me. Lei rimane nel mio cuore.

Poi ci sono stati gli anni dell’università, nel 1987 la specializzazione in Cardiologia. Come è maturata la decisione di diventare prete?
Amavo i miei studi, la professione a cui mi stavo affacciando; avevo tutto ma non mi sentivo soddisfatto, in pace. La sera, uscendo dall’ospedale di Padova, entravo nella vicina chiesa di Santa Sofia. Mi sedevo davanti al Crocifisso e chiedevo: perché non mi sento libero? Perché non sono felice? Mi piacevano alcune ragazze, anche io piacevo, ma non riuscivo a decidere cosa fare di me stesso. Dio, cosa vuoi da me?, chiedevo in quella chiesa.

Quanto durò l’attesa?
Due anni. La mattina di Venerdì Santo andai davanti al Sepolcro e sentii la risposta. Dio mi chiedeva tutto, mi voleva tutto. Ho respirato a pieni polmoni, quello che prima mi faceva paura mi ha riempito di una gioia e di un coraggio infiniti. E sono entrato in seminario, pensando di lasciare tutto, la specializzazione, la professione dei miei sogni. Mi sono sentito libero.

Poi le cose sono andate diversamente. Come vive la dimensione del celibato?
Profondamente. È grazie al celibato che riesco ad allargare i miei orizzonti fino ad arrivare a tutte le persone che incontro. Per me è un modo di voler bene.

Ha mai avuto momenti di “buio”, o di "notte oscura", come la chiamava santa Teresa di Calcutta?
Gli anni di attesa, prima di entrare in seminario, sono stati difficili per la mia fede. Un momento durissimo è stato lo scoppio della guerra in Ucraina.

Perché?
Perché la guerra ha drenato l’attenzione e tanti soldi destinati all’Africa, provocando uno sconquasso nel continente. Ho avuto la percezione potente che il lavoro mio e di tanti di cui ho la responsabilità fosse un’illusione. Tutto distrutto, vanificato.

E questo ha fatto vacillare la sua fede?
Sì, perché io credo nel mio lavoro, è la mia missione. In quel momento ho pensato che decenni di duro lavoro fossero stati inutili. La guerra ha fatto impennare i prezzi e quando il grano sale da 50 birr (la valuta dell’Etiopia, ndr) al quintale a quasi 2.000, i genitori possono comprarne un solo sacco al mese e la gente muore di fame. Le mamme muoiono, i bambini muoiono. Chiedevo a Dio: allora non sono figli Tuoi? Come posso credere in un Dio che, anziché aiutarmi nel mio lavoro, rimane indifferente o non mi è vicino? Di chi sono figli queste creature? Perché diciamo insieme, noi e loro, Padre Nostro? È stato un momento di grande sconforto.

Come ne è uscito?
L’ho accettato, con la pazienza e la preghiera. Alla fine mi sono detto: don Dante, tu fai tante cose, ma non sei tu che le fai, è il Signore che ti conduce. Prima ancora di te, è Lui che ha a cuore quelle persone, e tu sei un pezzetto della Sua storia di riscatto e di salvezza. Quelle mamme, quei bambini sono morti perché il male esiste, la guerra esiste. Ho dovuto fare pace dentro di me, accogliere il male e sentire che in quella storia Dio c’è, più forte di me, prima di me. Questa mi ha dato serenità, senza togliere il dolore.

Lei trascorre mediamente sei mesi in Africa e sei in Italia. Quale Paese, tra quelli in cui opera il Cuamm, ama di più?
(lunga pausa) Rispondo come una madre che ama tutti i figli, ciascuno con le sue caratteristiche, ma riserva più attenzioni al figlio che ha più bisogno. Dunque, il Sud Sudan, forse perché è il più disgraziato. Nella povertà più profonda, nell’ingiustizia più disumana, germogliano persone meravigliose. Per questo lo amo. E poi per le mamme: non hanno niente, non sanno una parola di inglese, ma con gli occhi ti inondano di gratitudine quando visiti il loro bambino.

Un paio di cose che le ha insegnato l’Africa?

Primo: niente lamenti, solo rammendi.

Cioè?
Ho imparato che la vita ha valore sempre, anche quando è sbregata. Con un tessuto lacerato non si può fare un vestito nuovo. Si può rammendare, con gioia e pazienza. Se noi pretendiamo troppo, poi rimaniamo insoddisfatti e questo è il motivo per cui viviamo da scontenti.

Secondo?
L’Africa mi ha insegnato che il limite c’è e va accolto. Io sarei un perfezionista, ma ho imparato il senso del limite e la sera vado a dormire contento anche dopo una giornata faticosa o frustrante.

Qual è la debolezza umana che è più incline a perdonare?
Non una, ma la gran parte. Ho pensato molto al richiamo del Papa alla misericordia: ecco, io eccedo.

Insomma, in confessionale è di manica larga. Ma ci sarà qualcosa per cui fatica a essere indulgente?
La mancanza di sincerità.

E la sua debolezza qual è?
A volte mi chiedo se è giusto lavorare così tanto. Talvolta faccio fatica a trovare un limite. Ma poi mi sento indulgente con me stesso, e mi dico che lo faccio per i più poveri. E poi un’altra cosa.

Dica.
Sono abituato a dir Messa dove mi capita: in aeroporto, in treno, dovunque. Talvolta temo di non tenere in dovuta considerazione la forma liturgica…

Peccati veniali, suvvia… Lei in Africa vede morire bambini colpiti da malattie che da noi sono curabili. Cosa prova?
Un dolore profondo, che mi rimane dentro. Certe volte sono esausto ma penso: Dante, sei stanco, sul serio? Devi fare di più, non devi perdere un secondo della tua vita, visto che hai avuto il privilegio di essere sano.

Lei ha 65 anni. Pensa mai alla pensione?
Mi sento in forma e certe volte mi stupisco anch’io del fatto di non sentirmi logorato dal lavoro. Il motivo però lo so: la Parola per me è vita. Più grande della fatica è il fuoco che mi strugge dentro.

Il suo progetto per la vecchiaia?
A volte penso a quando avrò 75 anni e potrò andare in pensione. Mi vedo in una chiesetta tranquilla, andare a trovare gli ammalati senza fretta, dire messa, leggere…

Facciamo finta di crederci… Lei è medico del corpo e medico dell’anima. Che dimensione prevale?
La seconda. Ma la prima aiuta a vivere meglio la seconda, è un patrimonio che rimane.

Lei viene ricoperto di premi e riconoscimenti. È anche commendatore. Si sente bravo?
No, no, per carità. Sono contento e ringrazio Dio, ma i riconoscimenti sono per il Cuamm. Io tento di fare quello che Dio mi chiede e di essere me stesso.

Qual è il suo sogno per l’Africa?
Che sia finalmente libera. Che gli africani, soprattutto i giovani, possano recuperare la propria dignità, quella che cercano con tanta speranza.

Ultima domanda: sua mamma aveva torto? Lei è un prete felice?
Sì, lo sono. Prima di morire mia madre mi disse: sono contenta perché vedo che non sei un prete triste. Il giorno della consacrazione ho pianto tanto, di felicità e gratitudine. Da quel giorno sono trascorsi 33 anni. E con umiltà, guardando il cielo, mi sembra di essere più contento oggi di allora. Ringrazio Dio che mi ha messo sulla strada dell’Africa, un continente bistrattato, pieno di limiti ma anche di opportunità. Un continente che non finisce mai di provocarmi.