La lumaca si è trasformata in una tartaruga, ma non è ancora diventata una lepre. Dunque, ce ne vuole per recuperare il terreno perduto rispetto alle altre banche centrali, che hanno capito e agito con largo anticipo. Nelle decisioni annunciate ieri dal presidente della Bce Mario Draghi ci sono tre fatti principali.Primo, la Bce porta ulteriormente i tassi verso il basso (dallo 0,15% allo 0,05%) precludendosi quasi del tutto ulteriori manovre dello stesso tenore. Poco male, perché questa è la decisione che incide meno. Si può infatti portare il cavallo alla fonte (invogliando le banche a prestare denaro all’economia reale), ma non si può costringerlo a bere. Se tutto si riducesse a questa decisione, come è stato in passato, le banche massimizzatrici di profitto utilizzerebbero il minor costo della raccolta per aumentare i margini su operazioni di acquisto di titoli in portafoglio.La seconda mossa della Bce è l’acquisto di Abs (
asset backed securities) ovvero di cartolarizzazioni sui mutui. In sostanza, quando le banche fanno prestiti devono accantonare riserve per bilanciare il rischio di non restituzione da parte dei debitori. Un’alternativa per le banche è aggregare i prestiti, impacchettarli e vederli a un terzo che si assume il rischio di credito. Tale alternativa consente loro di incassare in anticipo (e con uno sconto) i proventi attesi dal prestito. In questo modo le banche liberano le riserve accantonate e possono prestare di più.La terza mossa, il vero "
quantitative easing" o "allentamento monetario", è ancora in potenza (Draghi è un maestro delle decisioni in potenza, meno di quelle in atto) perché il presidente della Bce ha detto che «se la situazione lo richiederà» il consiglio darà il suo assenso a misure ulteriori. Quelle, aggiungiamo noi, di acquisto di titoli di Stato o anche di obbligazioni private che aumenterebbero la moneta circolante nel sistema, senza necessariamente passare per le banche.La decisione di acquistare Abs è dunque il surrogato del
quantitative easing, ovvero della vera espansione monetaria che la Bce dovrebbe fare, come invochiamo da quasi due anni, per sfruttare il "dividendo monetario" della globalizzazione e aumentare in modo deciso la moneta circolante nell’economia. Facendo così ripartire la domanda di beni, le vendite di prodotti, le decisioni di assunzione e di investimento delle imprese. E incidendo sui destini di quelle centinaia di migliaia di persone che abitano le percentuali del tasso di disoccupazione.Mettendo assieme quanto detto ieri e il 22 agosto a Jackson Hole, nella sua relazione all’incontro dei banchieri centrali, possiamo dedurre la visione di fondo di Draghi. Per uscire dalla crisi servono tre ingredienti, ciascuno dei quali necessario, ma non sufficiente di per sé. Una politica monetaria espansiva (qui il "vorrei ma non posso" ha partorito la tartaruga e non ancora la lepre); una politica fiscale espansiva a livello europeo (aspettiamo che arrivi la nostra parte dei 300 miliardi di euro del piano Juncker); le cosiddette "riforme" dei Paesi membri dell’Ue. Cosa Draghi intenda per riforme lo si capisce dal discorso di Jackson Hole: non una riduzione della spesa pubblica, ma una sua riqualificazione con uno spostamento da aree in cui il moltiplicatore è basso, i cosiddetti sprechi, ad aree in cui il moltiplicatore è alto.Non una riduzione dei salari, ma una flessibilità nella creazione e distruzione di posti di lavoro (coperta da ammortizzatori universali), che riduca il problema della coesistenza tra disoccupati e posti vacanti. Draghi ha insistito su questo punto, parlando dell’importanza dell’istruzione e della qualificazione professionale, perché la forza lavoro a bassa qualifica in un contesto difficile come quello della globalizzazione finisce per avere la peggio con lavoratori di analoghe qualifiche dei Paesi emergenti. Anche se non c’eravamo, immaginiamo dunque cosa Draghi e Renzi si siano detti nel famoso colloquio (definito 'patto') di quest’estate. E capiamo meglio il perché di una riforma della scuola che punta sulla formazione professionale e vuole investire complessivamente fino a 3 miliardi di euro da recuperare drenando risorse dalle spese pubbliche meno produttive. Qualcosa di diverso dagli 80 euro in busta paga finanziati con taglio di spesa, dove la riduzione certa di domanda pubblica era compensata da un aumento ipotetico di domanda privata con impatto incerto, e forse non positivo, sulla causa profonda di questa crisi: la mancanza di domanda aggregata, privata e pubblica. Qualcosa si muove, insomma, ma siamo ancora lontani dal migliore dei mondi possibili: quello in cui la Bce si trasforma da tartaruga in lepre; dove, come in un western, a un certo punto 'arrivano i nostri' – i 300 miliardi di investimenti Ue – a tirarci fuori dall’assedio della recessione con deflazione; e dove, pur rispettando criteri ragionevoli come il 3% del rapporto deficit/Pil, alla luce del sole ci liberiamo di orpelli veterorigoristi, quali il pareggio di bilancio e l’attuale versione del Fiscal Compact, di cui oggi tutti in Europa stanno cercando sottobanco di sbarazzarsi. Solo a quel punto, come stanno proponendo in Italia i promotori di un referendum, potranno risaltare i vantaggi derivanti dalle cosiddette 'riforme' interne. Perché, usando una metafora invernale, si possono anche fare tutti i migliori progetti per migliorare le scuole di sci, la formazione dei maestri e la logistica delle piste. Ma se non arriva la neve, cioè la liquidità monetaria e gli investimenti pubblici comunitari, la stagione non potrà partire.