Botta e risposta. «Farmaco gender»: tra buon senso e rischi ideologici
Caro direttore,
chiunque di noi avesse un figlio con un problema medico importante per cui sia disponibile una terapia efficace nel 89% dei casi, e decidesse di non tentare di applicarla, sarebbe privo di buon senso, e la sua scelta fortemente discutibile moralmente e anche legalmente. Non sono mancati casi di cronaca di genitori che hanno di fatto impedito la guarigione dei figli per patologie gravi, ma suscettibili di trattamento efficace. Su “Avvenire” del 13 marzo 2019 in un’ampia analisi di Luciano Moia – intitolata «Farmaco gender, servono chiarezza e misericordia» – si sono affrontate di nuovo le ipotesi di trattamento della disforia di genere in età pre-pubere, con evidente riferimento, senza citazione, ai dati del DSM-5, che riportano una spontanea remissione del fenomeno nel 98% dei soggetti disforici di sesso maschile e nel 89% di quelle di sesso femmine (quasi il 90% in entrambi i sessi). Il blocco farmacologico della pubertà sarebbe riservato a quei “rarissimi casi” in cui la sofferenza legata alla diversa percezione di sé comportasse il rischio di gravi disturbi comportamentali fino al suicidio, il tutto – cito ancora l’articolo in questione – in attesa della possibilità che «al termine dell’adolescenza il problema vada stemperandosi » , cioè attendendo una risoluzione spontanea mentre si dilaziona artificialmente l’evento risolutivo, cioè la pubertà, in assenza della quale il termine dell’adolescenza è un momento non definibile. Una situazione paragonabile nel paradosso, sia pure in ambito diverso, è la certificazione necessaria all’aborto, che viene spesso rilasciata a fronte di “grave rischio psichico” per la salute della madre nel caso di proseguimento della gravidanza, come dire che essendo prevedibile (ad esempio) una grave depressione post partum con possibile infanticidio, si decide di provocare deliberatamente la morte del feto e le incomprimibili sequele psicologiche dell’aborto sulla madre, cioè un danno certo e grave a fronte di un evento possibile che si vorrebbe evitare. Nessuno nega la necessità del sostegno psicologico, e anzi gli specialisti che intervengono su altri aspetti della personalità a causa di patologie associate, senza affrontare direttamente i problemi della sfera sessuale, assistono spesso a una inaspettata variazione dell’orientamento della libido in senso concorde al sesso biologico. Ma riguardo all’aspetto endocrino o chirurgico, il parere di illustri colleghi di società scientifiche di cui io stesso ho fatto parte, non possono eliminare il fatto che nessuno studio prospettico controllato è possibile per avvalorare questo particolare impiego della triptorelina, essendo inaccettabile prolungare i gravi effetti collaterali del blocco ormonale, magari fino alla maggiore età o fino alla fase chirurgica, (che certo non arriverà il giorno dopo), sui cui risultati è lecito esprimere forti dubbi. Chiarezza e misericordia, d’accordo, ma con una generosa dose di buon senso.