21 marzo. Discriminazioni razziali: la primavera tarda ancora
Domenica, 21 marzo, in concomitanza con l’inizio della primavera, si celebra la Giornata internazionale per l’eliminazione delle discriminazioni razziali. Quasi a significare che serve un vento primaverile per spazzare via uno dei mali sociali più diffusi e radicati. Il nostro Paese è indietro nella sensibilizzazione e nel contrasto del fenomeno. Le stesse statistiche sono lacunose e approssimative, certamente sottostimate rispetto all’incidenza effettiva delle svariate forme di trattamento ingiusto delle persone di origine straniera o etichettabili come diverse per la loro apparenza fisica.
Qualcosa però ci dicono: secondo l’ultimo "Libro bianco sul razzismo in Italia" prodotto da Lunaria (2020), i reati a sfondo razzista o xenofobo erano 194 nel 2013. Poi si sono attestati tra i 400 e i 500 tra il 2014 e il 2016. Sono esplosi nel 2017-2018, con oltre 800 casi all’anno, riducendosi nel 2019 a 726 casi (dato provvisorio).
L’Unar (Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali) ha registrato a sua volta nel 2018 2.331 casi di discriminazione, per il 70% riconducibili a motivazioni etnico-razziali. Lunaria, sulla base di varie fonti, denuncia invece 7.426 casi di discriminazione e razzismo tra il 2008 e il 31 marzo 2020. Tra questi i più gravi si riferiscono a 901 persone offese, minacciate, picchiate e persino purtroppo uccise perché identificate come etnicamente "diverse".
Dobbiamo però domandarci perché rimanga difficile in Italia riconoscere, far emergere e contrastare le discriminazioni.
La prima ragione è istituzionale. Poca convinzione, pochi investimenti, strutture inadeguate. L’Unar è un’istituzione debole, dipendente dalla Presidenza del Consiglio, anziché avere il profilo di un’alta Autorità indipendente. Questo comporta condizionamenti nel vagliare espressioni verbali e comportamenti discriminatori da parte dei decisori politici, e anche sul versante degli oppositori, per non esporsi all’accusa di essere uno strumento governativo per colpire il dissenso.
Della Commissione Segre per il contrasto delle forme d’intolleranza, approvata dal Senato nel 2019, si sono invece perse le tracce. Lo sbarramento degli oppositori finora l’ha spuntata. Si noti che il tema, benché chiaramente incardinato nella Costituzione, in Italia è oggetto di contesa politica. Sembra la bandiera di una parte contro l’altra, non un principio condiviso.
Ma forse i guasti maggiori sono quelli meno visibili e più diffusi nelle istituzioni periferiche. Benché sia stata approvata nel 2013 una legge che abolisce il requisito della cittadinanza italiana per partecipare ai concorsi, molti Comuni e molte Asl continuano imperterriti a mantenerlo. È accaduto anche l’anno scorso, durante la pandemia, in tutte le Asl d’Italia, come ha documentato l’Asgi (Associazione studi giuridici sull’immigrazione). Nessuno d’altronde si preoccupa di sanzionare i responsabili.
Molti sono poi i provvedimenti delle amministrazioni locali, variamente giustificati, che introducono penalizzazioni a carico di persone e famiglie di origine immigrata per accedere a vari servizi, dalle mense scolastiche, ai buoni-libro, all’edilizia sociale. Provvedimenti stile Lodi, per citare il caso più famoso degli ultimi anni. E qui si tocca una ragione tanto triste quanto forte per cui queste forme di discriminazione sono sostanzialmente accettate, e persino appoggiate: discriminare gli immigrati significa favorire gli italiani, magari soltanto quelli che lo sono per discendenza. Anziché chiedere più servizi per tutti, politiche sociali più robuste e inclusive, molti cittadini-elettori preferiscono seguire le sirene che invitano a strappare ai più deboli una fetta maggiore di una torta scarsa.
Non cesseranno le discriminazioni finché non usciremo da questa logica rancorosa, di penalizzazione delle minoranze, in nome dei presunti diritti di chi ha dalla sua il privilegio dei numeri e il potere del voto.