A che punto siamo. Disabilità e Terzo settore: la discontinuità sia reale
Caro direttore,
discontinuità: ripetono il Pd e il M5s. Non è una discussione priva di senso, ma va commisurata sui temi concreti. Prendiamo due aree sulle quali circolano congetture strumentali e un lungo elenco di amenità: la disabilità e il Terzo settore. Nel primo caso il messaggio era contrapporre l’intervento a favore di persone con disabilità a quello per l’accoglienza dei migranti. Il 'prima gli italiani' trova così una sua retrograda applicazione poiché giocata sulla contrapposizione tra gruppi sociali. Entrambi vivono una condizione di disagio, discriminazione e rischio di essere relegati ai margini.
Una contrapposizione funzionale a chi vuole alimentare il rancore e l’odio sociale, ma che si è tradotta nell’inutile istituzione di un Ministero nell’ambito del defunto governo giallo-verde. Inutile poiché basata sulla contrapposizione e non sulla proposta. Risultati? Nessuno. Non poteva essere diversamente. Sul Terzo settore si è giocata una partita spudorata. L’emblema dei tanti attacchi che hanno subito Ong, cooperative sociali e persino il volontariato è stato il gioco sugli interessi: 'Anche i cosiddetti buoni sono corrotti e per interesse si muovono contro il popolo italiano', 'Chi salva le persone in mare e le accoglie dignitosamente, incoraggia la corsa di africani verso l’Italia e verso l’Europa'. Quindi il Terzo settore è un nemico del popolo italiano.
Da qui provvedimenti che ne limitino l’azione e l’autonomia. Purtroppo basta guardare la realtà dei fatti: il ciclo di sbarchi è stato ridotto finanziando le bande libiche e finendo per alimentare l’abbietto sistema delle loro carceri perché chi scappa, lì continua ad arrivare. Ergo, il Terzo settore non c’entra nulla. Va riconosciuto che questa direzione non nasce nella corrente legislatura, benché trovi in essa il lirismo più distruttivo. Affonda le sue radici in una visione economicista che ha condizionato la Riforma e l’elaborazione del Codice del Terzo settore. Vi era chi vedeva il Terzo settore come protagonista della crescita del Pil e dell’occupazione, frustrandone la natura caratterizzata dalla sostenibilità e dal contrasto alle diseguaglianze. E vi era chi rilanciava il presunto sfruttamento dei lavoratori, con ciò implicitamente negando l’impegno civico.
Ne è uscito un compromesso perlomeno non troppo pericoloso per l’autonomia della partecipazione dei cittadini. Purtroppo però quegli approcci, con il governo giallo-verde, si sono avvitati, arrivando a richiamare una 'correità' del Terzo settore con le élite, magari anche internazionali. Sono cancellati anni di lotte e di azione nelle comunità. Ma allora come si può operare la discontinuità su questi due temi? Anzitutto va superato il mito infelice di un dicastero dedicato alla disabilità. Così come la risposta di ripartire dalla precedente legislatura non terrebbe conto dei risultati del coordinamento del Ministero del lavoro e delle politiche sociali. Ottimi quelli su un nuovo approccio alla disabilità per quanto attiene alle politiche sociali e del lavoro, anche se con un impatto relativo per scarsità delle risorse o per insufficiente attuazione.
Molto meno positivi su tutti gli altri ambiti di vita (scolastico, sanitario, accessibilità, legale, ecc...) descritti nei due Piani di Azione. Il vero cambiamento quindi non può non giocarsi che in una regia interministeriale a Palazzo Chigi: un Dipartimento all’interno della Presidenza del Consiglio con adeguata dotazione di personale competente. Un luogo di indirizzo, monitoraggio, sintesi, coordinamento. Di pensiero e di azione. Il ruolo politico deve essere del presidente del Consiglio dei Ministri (o di un suo diretto delegato) in quanto primo responsabile dell’attuazione dell’articolo 3 della Costituzione. Centrale è il tema delle risorse. Se di dotazioni economiche dobbiamo parlare, non solo della loro scarsità, occorre partire dalle modalità con cui la spesa esistente, oggi dispersa tra Ministeri, Inps, Regioni e Comuni, produce l’inclusione sociale.
Per far ciò la dotazione dovrebbe essere anche quella idonea per accompagnare le amministrazioni centrali e locali nella rivisitazione delle rispettive responsabilità. Per il Terzo settore occorre ridare valore all’impegno di chi, a titolo volontario o accettando di non ambire solo al proprio benessere, si fa carico delle fasce più svantaggiate. Non basta – anche se è necessario – attuare, con rapidità ed efficacia, la Riforma e il Codice. Vanno riviste norme che ne limitano l’azione, a partire da una nuova concezione di ciò che ha valenza pubblica ed è nell’interesse generale. È o non è interesse di tutti che l’emarginazione sociale non sia percepita come un pericolo sociale, concretizzare l’inclusione e tutelare i beni comuni? Occorre quindi una grande azione che metta al centro la sussidiarietà e nuove modalità di collaborazione tra la Pubblica amministrazione e il Terzo settore. Forse è il caso che anche di questo si faccia carico la Presidenza del Consiglio, come già è stato fatto notare.
Si pensi al Codice civile che necessita di essere rivisto. Oppure al Codice degli appalti che, senza nessun reale vincolo europeo, attraversa le politiche sociali. All’accoglienza dei migranti ridotta alla mera capacità alberghiera. O alle norme fiscali che arrivano a penalizzare l’impegno civico dei cittadini. In ogni caso, imprimere forza all’indispensabile discontinuità non è un allegro pranzo di gala.
Membro del Comitato economico e sociale europeo, già portavoce del Forum del Terzo settore