Opinioni

Analisi. Disabili, ecco come il cristianesimo ha infranto le barriere

Vittorio A. Sironi sabato 4 marzo 2017

Non è una società degna dell’uomo quella che discrimina i disabili e non sa accettare i diversi. «La qualità della vita all’interno di una società si misura dalla capacità di includere coloro che sono più deboli e bisognosi» e la maturità si raggiunge «quando tale inclusione non è percepita come qualcosa di straordinario, ma di normale», perché «anche la persona con disabilità e fragilità fisiche, psichiche o morali, deve poter partecipare alla vita della società ed essere aiutata ad attuare le sue potenzialità nelle sue varie dimensioni». Le recenti parole del Papa costituiscono un forte richiamo alla necessità di dare piena realizzazione a una conquista di civiltà iniziata duemila anni fa con l’avvento del Cristianesimo. Un lungo percorso, pieno di ostacoli e non ancora concluso, declinato nei secoli dalle vicende individuali e sociali di una schiera di persone non autonome e indipendenti, non adeguatamente abili ed efficienti. Dal rifiuto alla consapevolezza e all’accettazione, dall’accettazione alla condivisione e alla solidarietà, dalla solidarietà al recupero e all’affermazione. Così si è dipanato storicamente l’atteggiamento culturale nei confronti dei non autosufficienti.

Nell’antichità il rifiuto del disabile costituiva la regola. Chi nasceva con difetti fisici evidenti o chi, nel corso della vita, andava incontro a menomazioni fisiche e a disturbi mentali o contraeva malattie devastanti e disabilitanti veniva considerato anormale, diverso, e come tale estromesso, emarginato, talvolta addirittura eliminato fisicamente dal contesto di una società dov’era indispensabile requisito per la sopravvivenza individuale e per l’equilibrio sociale essere normale, cioè possedere l’integrità fisica e mentale. In tale contesto gli individui che non avevano queste caratteristiche costituivano un insostenibile peso. La categoria della normalità trovava la sua ragione d’essere nell’idea che la perfezione del corpo o la purezza dell’animo costituissero indispensabili requisiti individuali per preservare la propria esistenza fisica e per mantenere l’integrità sociale della comunità. Chi non possedeva o perdeva nel corso dell’esistenza la sua 'normalità' veniva affidato ai rappresentanti ufficiali della società che avevano il potere-dovere di eliminarlo o di emarginarlo. Solo quando, con Ippocrate (460-370 a.C.), s’iniziò a vedere la malattia come uno dei tanti fenomeni della natura si prese anche coscienza che il danno poteva essere curato riducendo, in tal modo, anche la disabilità. Con l’avvento della concezione razionale della malattia nacque anche la consapevolezza che era possibile, attraverso un adeguato trattamento, eliminare o ridurre l’handicap del disabile.

Se è merito della rivoluzione medica ippocratica aver reso consapevoli individui e società dei problemi legati alla disabilità, sarà però la rivoluzione concettuale e morale operata dal cristianesimo che consentirà di giungere alla sua accettazione prima e al suo superamento poi sul piano individuale e sociale. Saper andare oltre e accettare il proprio corpo così com’è. Fare della propria disabilità non un limite invalicabile, ma un punto di partenza in grado di esprimere un’abilità fisica e mentale che può apparire 'diversa' solo agli altri. È la lezione di tanti famosi atleti paraolimpici (da Alex Zanardi a Bebe Vio, solo per citare due protagonisti dei recenti giochi di Rio De Janeiro), ma è anche l’insegnamento che viene da alcuni meno eclatanti episodi di cronaca: conquiste straordinarie ottenute con tenacia e convinzione profonda dopo una lunga preparazione e testimonianze toccanti di un’esistenza vissuta nella pienezza del dono della vita. Erik Weihenmayer, 46 anni, alpinista non vedente del Colorado, un anno fa ha aggiunto un altro traguardo all’elenco delle sue imprese: la scalata della Marmolada insieme ad altri quattro compagni di cordata. Erik ha perso la vista a tredici anni, ma la cecità non ha mai rappresentato un limite per lui. La vive semplicemente come un nuovo modo di essere, un’opportunità per esplorare il mondo in modo diverso, non meno bello e appagante rispetto a chi vede. Questa sua 'filosofia di vita' unita alla passione per l’alpinismo lo ha portato già sulle montagne più alte del mondo, Everest compreso. Lo ha scalato nel 2001, primo non vedente a riuscire nell’impresa. Da allora non si è più fermato e ha realizzato anche un programma, No Barriers, concepito proprio per aiutare gli altri a superare i limiti legati alla disabilità.

Margherita Abbatangelo, 23 anni, affetta dalla sindrome di Turner – una rara malattia genetica che determina anomalie scheletriche e rallentamento nello sviluppo psicomotorio, conferendo un aspetto senile e bassa statura – nell’agosto dello scorso anno ha portato a termine con successo la traversata a nuoto dello stretto di Messina. Una prova di grande tenacia (sino a due anni prima Margherita non sapeva nuotare) per dimostrare che con la determinazione si possono superare ostacoli che sembrano insormontabili. È lo scopo dell’associazione SuperSportivi a cui appartiene, nata per valorizzare la cultura sportiva come strumento riabilitativo per i disabili. Oliviero Bellinzani, travolto e ucciso due anni fa da una frana mentre arrampicava sulle Alpi Lepontine, era un alpinista italiano di 59 anni che scalava impegnative montagne senza una gamba (amputata dopo un incidente) con la protesi, raggiungendo traguardi alpinistici di notevole livello, difficili anche per chi arrampica con entrambe le gambe. «In molti amputati – aveva scritto sul suo sito – c’è troppa autocommiserazione e incapacità di soffrire, come se la sofferenza facesse paura. Ho capito che il limite in realtà spesso non c’è, ma è solo nella testa. Voglio che la gente sappia che per fare certe cose non è necessario essere 'integri'».

Parole che ricordano quelle che un grande prete, precursore illuminato della riabilitazione della persona, Don Carlo Gnocchi (1902-1956), era solito dire ai suoi 'mutilatini' disabili: di essere consapevoli e quasi 'fieri' della propria particolare condizione. Chi era diventato un mezzo corpo non in grado di camminare perché privo di gambe o chi era rimasto un tre quarti di uomo perché senza una mano o un piede, non doveva farsi compatire: doveva dimostrare a se stesso e agli altri che la propria 'abilità residua' era un’opportunità per mettere in mostra la grande capacità di quella vita restante: superare i limiti e andare oltre, dimostrando coi fatti di non essere diversi, né inferiori, né meno abili degli altri 'normali'. Matteo Nassigh, 19 anni, grave disabile sin dalla nascita, in questi giorni ha lanciato un accorato (ma inutile) appello al dj Fabo perché non mettesse in atto il suo progetto di andare in Svizzera a morire. Bloccato sulla sua carrozzina non parla, non cammina, non è autonomo, ma riesce a comunicare con gli altri grazie alla sua 'tavoletta' per scrivere. «Noi persone cosiddette disabili – afferma con convinzione – siamo portatori di messaggi molto importanti per gli altri, noi portiamo la luce. La disabilità non è l’assenza di qualcosa, ma una diversa presenza». Anche nelle situazioni più estreme, quando si sperimenta ogni giorno «la fatica di vivere in un corpo che non ti obbedisce per niente». Esperienze che lanciano un preciso messaggio: ogni esistenza è degna d’essere vissuta. E come tale deve essere accettata dall’individuo e dalla società: come fattore di maturità soggettiva (capacità di vivere la differenza), ma anche soprattutto come elemento di cultura collettiva (capacità di accogliere il diverso) se la società vuole essere veramente libera, civile e progredita.