«Come spendiamo male la nostra vita». Tanti no. E sono loro il «noi» che vale
Caro direttore,
quanto è felice la mirabile intuizione di chi affermava che «noi moriamo appunto quando impariamo a vivere». Né è possibile, a mio parere, per quanta saggezza possa sprigionare dall’uomo, imparare a vivere prima. Per lo meno, per apprezzare la vita, sarebbe necessaria quella impossibile esigenza che Goncourt chiamò «le besoin de mourir un peu» (il bisogno di morire un po’). E invece viviamo i nostri giorni con la tronfia fierezza dell’immortalità, quasi fosse, la nostra immagine, forgiata nella roccia che non teme il tempo. Spendiamo la vita nel trionfo egoistico e nella povertà dell’«io» senza attingere alla ricchezza del «noi», in una gara dura di reciproci colpi bassi, sempre tesa nello spasimo della supremazia, sempre più vuota di sentimenti umani; tutto come se, infine, nelle nostre mani potessero convergere le sorti di cielo, mare e terra. Nessuno vive nella sua autentica dimensione carnale: ognuno sembra vivere come fuso in una colata di acciaio, più temprata e inscalfibile delle altre. Fin quando... qui a sinistra, in petto, il grande tiranno che sempre decide per ultimo e mai ritorna su ciò che ha deciso, non stacca la spina. Basta così un fiotto interrotto, un battito che diserta, a dissolvere quel vanesio "belletto" nel pulviscolo dei tempi.
Edgardo Grillo, Cerignola (Fg)
Apprezzo lo spirito del suo "esame di coscienza" a nome di tutti noi, caro amico, e la sua capacità di indicare alcuni dei mali di questo nostro tempo complicato, che è anche vanesio, parolaio ed egoista. Ma anche, appunto, non soltanto. E le consiglierei di resistere alla tentazione, diffusa, di usare cupamente e involontariamente a sproposito il coinvolgente e comunitario "noi" a cui giustamente ci richiama. Non tutti vivono come troppi purtroppo vivono «nello spasimo della supremazia» sugli altri, nel delirio dell’auto-realizzazione sulla pelle dei più deboli, nell’astio e addirittura nell’odio per i diversi per origine, pelle, fede, scelte di vita... Che ne facciamo, altrimenti, di tutti coloro che non s’intruppano nelle torme dell’individualismo (c’è anche quello di gruppo, e quello di nazione...) e non si accodano e non si rassegnano all’andazzo del "chissenefrega" (indifferenza, sembra parola persino troppo elegante per un tale risentimento nei confronti dell’altro)? Fingiamo che non ci siano? Non sarebbe giusto. E sarebbe autolesionista. Se c’è una via di uscita dal vicolo cieco dell’«ognun per sé» (nel quale ci si dimentica anche dell’«e Dio per tutti» del vecchio e un po’ cinico proverbio), si può imboccarla solo seguendo l’esempio di quanti vivono bene perché non pensano esclusivamente al proprio bene e seminano bene nella vita della comunità di cui sono parte: insegnanti, uomini e donne delle professioni sanitarie, amministratori di aziende pubbliche e private dediti non solo al profitto, cooperanti, lavoratori seri e capaci, volontari, artisti, custodi della sicurezza di tutti, persone che sanno davvero costruire case e città, parlamentari e governanti onesti (ci sono!), gente che fa cronaca con coscienza (c’è anche questa!) uomini e donne di Dio... Cominciamo a non usare quel "noi" triste, che dice e ripete che tutto sarebbe ugualmente scuro e che tutti, menando «colpi bassi», sarebbero ugualmente concentrati sul proprio ombelico, il proprio orto, il proprio spicchio di cielo. Non è così. I migliori tra noi, esistono eccome. Sono, è vero, quelli che muoiono un po’ a sé stessi per vivere pienamente. Sono il "noi" che vogliamo essere. E quando un cuore – il «grande tiranno» di cui mi scrive, caro Grillo – smette di battere, gli altri cuori continuano a farlo anche per lui. Per noi.