«Fa male spiare il Covid di una figlia e vorresti silenzio». M’immedesimo e...
Caro direttore
figlia positiva, è infermiera. Quando era in reparto Covid, prima ondata, era attrezzata e protetta, ora non lo è più e ha avuto solo una mascherina in dotazione. Era solo questione di tempo: doveva succedere. Fai il tampone anche tu, sospendi nell’attesa tutti gli impegni di lavoro, e aspetti. Vita in stand by. Vedi in bianco e nero. Guardi dalla finestra una quotidianità di cui facevi parte, e che di colpo, appare lontana ed estranea, e pensi. Parlai con lei, a distanza. Ha una leggera tosse, ha perso gusto e olfatto, è debole, si stanca subito, dice. Tua moglie non parla più. Cerchi di mostrarti ottimista, spavaldo, ma stai mentendo. I pensieri diventano sottili, minacciosi, non li riconosci, sono tossici. Scenari: l’unica amata figlia, si aggrava, le sue condizioni si avvitano, muore, vedi il suo funerale, che è il funerale della tua vita intera. Un’incudine sul petto, una pressa idraulica. In casa non riesci a fare niente, tutto quello che fai è meccanico, hai perso tu il sapore e l’odore della vita, aspetti, continui a mentire, ma non sei convincente, e lo sai. Da troppi mesi c’è un solo telegiornale, sempre lo stesso, i talkshow e gli esperti continuano a parlarsi addosso senza pietà di noi e di loro stessi, i quotidiani sono un incubo ricorrente, non dicono nulla che tu non sappia già. Siamo tutti ammalati. E un ammalato per guarire, ha bisogno di silenzio e amore, questa overdose ossessiva di informazione, non ci aiuta, ci deprime, ci fa ammalare di più. Dateci tregua, giornalisti, parlate d’altro, non si vive di problemi da risolvere, e le polemiche teniamole per dopo. Dateci una medicina con un buon sapore.
La figlia ha telefonato. Ha smesso di tossire, non ha ancora olfatto e gusto, ma si stanca meno. Respiri. I fantasmi di qualche giorno fa si stanno dissolvendo, ti stai risvegliando. I nostri tamponi sono negativi, ma non importa, importa che lei sta meglio! Rivedi i colori, quasi non te li ricordavi più. Non è finita, ma il sangue ha ripreso a scorrere. Sono stati giorni difficili, non riesco neppure a immaginare il male di vivere di chi ha perso qualcuno. Lo abbraccio, e abbraccio te, Marco.
Eugenio
Ho letto con emozione e con il fiato sospeso la tua lettera, amico mio. Fino al sorriso finale, fino all’abbraccio, che accolgo e restituisco con forza. Non posso far finta di non conoscerti bene, Eugenio. Compagno di strada, ieri, negli anni belli, tumultuosi e intensi della nostra formazione cristiana e civile, interlocutore e lettore acuto oggi. Ma rispetto, e comprendo perfettamente, il desiderio di non firmare per esteso questa lettera che viene dal tuo cuore e dal cuore della tempesta che un po’ tutti stiamo attraversando con fatica e strazio. Non ho vissuto, da padre, la tua stessa prova e forse, per indole, l’avrei affrontata con più speranza. Ma dico forse, e mentre mi immedesimo e metto nero su bianco la parola “speranza” mi chiedo fino a che punto ne sarei capace... Anche solo il pensiero di una figlia, di un figlio in una condizione di mortale pericolo è probabilmente il peggior incubo per un genitore, per chi sperimenta paternità o maternità, che in modo persino lancinante è carne e sangue, eppure non è affatto legame appena biologico, ma pure e profondamente morale e spirituale. Noi cristiani lo sappiamo – e magari dovremmo ricordarlo di più, e più spesso – che di una madre e di un padre tutti hanno bisogno, anche Dio, anche la Parola che viene ad abitare in mezzo a noi, eppure non si è esclusivamente genitori con «i propri lombi». Non c’è dubbio, comunque, questo lo so e continuo a scoprirlo con le mie figlie, che «forte come la morte» è anche l’amore paterno. Che non è un momento, ma una storia.
Ma tu, caro Eugenio, tocchi anche un punto sensibile per chi come me vive dando e commentando notizie. Scrivi dell’«overdose» informativa sul Covid-19, invochi «silenzio e amore» per l’«ammalato» che è l’opinione pubblica e sbotti: «Dateci tregua, giornalisti, parlate d’altro, non si vive di problemi da risolvere, e le polemiche teniamole per dopo. Dateci una medicina con un buon sapore». Capisco anche questo, ma non acconsento del tutto. Sei un lettore attento. E, come vedi, quasi ogni giorno abbiamo, grazie al nostro lavoro di cronaca fuori dagli schemi e dal cosiddetto flusso mainstream, aperture di prima pagina e fior di notizie “altre”, anche se non proprio tutte «di buon sapore». Ma non possiamo e non dobbiamo rinunciare a garantire un’informazione esaustiva (e non ossessiva o anche solo ripetitiva) sulla pandemia in corso, cercando di mettere a disposizione dati di realtà, punti di osservazione e spunti di riflessione non scontati e anticipatori di temi e prospettive. È un impegno onesto e tosto, e pure questo lo sai già. E non è detto che ci riesca sempre, sebbene io sia davvero grato ai miei colleghi e alle mie colleghe per ciò che stiamo, poco a poco, costruendo a favore della consapevolezza dei lettori. C’è dura strada da fare ancora, ma ci sarà il traguardo. E poi ricomincerà il cammino, perché è vero che «non si vive di problemi da risolvere», ma lo è altrettanto che noi uomini e donne i «problemi» li abbiamo sempre in bisaccia o sulle spalle. L’importante è non dimenticare, e dimostrare a figlie e figli, che in testa, nel cuore e in quel “di più” che chiamiamo coscienza o anima abbiamo pure le risposte.