Equità e civismo: il sogno realista di un'«impossibile» giustizia fiscale
Caro direttore,
ho letto la sua risposta alla lettera del medico Franco Bergesio (“Avvenire”, sabato 14 novembre 2020) e ho una osservazione da fare. Personalmente spero in un fisco progressivo con il reddito, secondo la filosofia che ognuno dia quello che può e riceva quello che gli è necessario. Il mondo non va in questa direzione, eliminando da anni progressività a favore di tassazione indiretta come l’Iva, addirittura si propaganda l’aliquota Irpef unica! I poteri d’altra parte pendono verso gli alti redditi. In questa ottica applicare tariffe diverse per lo stesso servizio (superticket, tasse universitarie etc.) significa abdicare alla speranza che la tassazione sia equa secondo questa filosofia e affidarsi solo a sostegni per i poveri e tariffe punitive per i benestanti. Sarà più facile che sconfiggere l’evasione, ma dov’è l’equità tra due ugualmente benestanti, uno sano e uno che necessita di diversi medicinali? E non voglio neppure sfiorare l’argomento figli, per cui chi ne ha strapaga l’università, chi non ne ha passa le vacanze ai Caraibi. Dovremmo smettere con balzelli che oltretutto succhiano risorse per la raccolta e il controllo e cominciare sul serio a combattere l’evasione e applicare aliquote crescenti a tutti i redditi... c’è un altro modo?
Pietro Molina, Vigevano (Pv)
Gentile direttore,
il medico Bergesio con la lettera al direttore «Perché è meglio che chi può paghi ancora il “superticket”» ha sollevato un quesito degno di attenzione. Egli ritiene «ingiusto» non richiedere quel contributo (il superticket) previsto per una parte già «privilegiata» della società. Lei, direttore, fa alcune messe a punto, ma la pensa sostanzialmente come lui. Io do una risposta più articolata. Il superticket su prestazioni ambulatoriali e alcuni farmaci è stato introdotto nel 2011 in occasione di una delle tante emergenze italiane e ha portato a un calo delle prestazioni erogate dal Sistema sanitario nazionale (nel 2012 calcolato del 17,2%), una parte direttamente in seguito alla rinuncia dei cittadini a curarsi e una parte perché assorbita dal settore privato. Per parte mia, ritengo che parlare di «privilegiati» sia inopportuno e parlare di «ingiusto» non sia corretto. Dei “privilegiati” ha già spiegato lei, direttore, e concordo. Quanto all’«ingiusto» è detto “di persona, che non osserva, abitualmente o in singoli casi, i princìpi della giustizia e dell’equità nell’operare o nel giudicare”. Dico che quegli aggettivi non hanno a che fare con l’abolizione del superticket. La sperequazione nella distribuzione della ricchezza dovrebbe essere corretta con la tassazione: chi ha di più paga di più e in misura progressiva. Trovo giusto che anche i cittadini sensibili alle differenze e alle esigenze sociali paghino e prendano quello che Cesare, lo Stato, chiede e dà loro. Per acquietare la coscienza potranno dare, ciascuno, quanto ritengono di avere in sovrappiù, non come offerta (sovente pelosa) ma quale contributo.
Marco Scarpa, Torino
Siate realisti chiedete (ciò che appare) l’impossibile... È un’idea in forma di slogan che circolava suggestivamente, e anche sventatamente, quand’ero ragazzo. Ho sempre pensato che c’è uno slancio profondamente buono nella poesia sorridente di questo paradosso. E sulle nostre pagine, gentili amici, ci spendiamo da sempre per un prelievo fiscale equo, certo e sostenibile “per tutti” in ragione dell’effettiva capacità contributiva, secondo la convergente visione e previsione dell’articolo 53 della Costituzione e della Dottrina sociale della Chiesa. Non richiamo ogni volta decenni di argomentazioni, di racconti da altri Paesi, di proposte operative pubblicate su queste pagine e spesso, in questi undici anni di direzione, diventati oggetto di dialogo tra me e i lettori. Ecco perché, faccio un esempio niente affatto casuale, chiediamo di far evolvere le regole del nostro Paese verso una piena considerazione degli effettivi carichi su ogni contribuente, a cominciare da quelli familiari... Tutto ciò contempla necessariamente la lealtà anche fiscale dei cittadini e, dunque, l’adempimento dei doveri fiscali e il contrasto dell’evasione. Ma non esclude, qui e ora, che chi ha di più possa contribuire specificamente – e, ripeto, in modo certo, equo e sostenibile – al mantenimento e allo sviluppo “per tutti” di servizi come quello sanitario. E a maggior ragione mentre la crisi sanitaria e socio-economica scatenata dalla pandemia di Covid-19 mette a nudo fragilità di sistema e impone investimenti di risorse su personale e mezzi dopo una lunga stagione di sprechi e non avveduti tagli. Investimenti, che – come abbiamo tutti chiaro – saranno fatti a debito, cioè sulle spalle delle generazioni future e di quella oggi più impegnata a “reggere la baracca” dei conti del nostro bellissimo, ricco e malmesso Paese. Insomma: in un mondo (quasi) perfetto – e in un’Italia più onesta e dove le risorse pubbliche vengono sempre onestamente impiegate – potrebbe e dovrebbe bastare la fiscalità generale a garantire tale esito, ma strada facendo, questo – all’insegna di un molto cristiano “et et” – è l’«impossibile» eppure realista civismo che anch’io vorrei vedere in atto.