Opinioni

Il caso Malaysia. Dio non ha padroni

Fulvio Scaglione martedì 15 ottobre 2013
In Malesia una corte formata da tre giudici musulmani ha deciso che i cristiani non possono usare la parola "Allah" per dire Dio. L’uso di quel termine è riservato in esclusiva ai musulmani. È vero, sembra uno scherzo. Pensate se un tribunale occidentale decidesse che la parola "God" non può essere usata dai non cristiani. Ma l’assurdo giudiziario nasconde risvolti fin troppo seri. Serve, però, un piccolo riassunto delle puntate precedenti. Risale al 2008 il primo pronunciamento per vietare ai cristiani, per ragioni di «ordine pubblico», l’uso della parola "Allah". Nel 2009, dopo l’appello del settimanale cattolico The Herald, la sentenza fu rovesciata. Contro appello nel 2010 e ieri, appunto, la sentenza.La Malesia, dove i musulmani sono il 60% della popolazione, i buddisti più del 19% e i cristiani circa il 10%, non ha una storia di contrasti interreligiosi. O meglio: ce l’ha, ma solo a partire dal 2009, perché dopo la sentenza favorevole ai cristiani molte chiese vennero danneggiate, bruciate o fatte saltare con l’esplosivo. Il che già dice una cosa importante: in campo religioso, i problemi sul terreno nascono non quando si praticano tante fedi diverse, ma quando si pretende di ridurle a una, quando si cerca di tracciare un confine tra quelle di serie A e quelle di serie B.Il pretesto linguistico addotto dal tribunale malese fa sorridere persino chi ha poca dimestichezza con quel lontano e affascinante Paese. In Malesia si parla il malay, lingua codificata nel Cinquecento nei sultanati di Malacca (prima) e Johor (dopo), discretamente in anticipo sulla formazione della Malesia come Stato indipendente nel 1963. Il malay – che è parlato anche in Indonesia, Timor Est, Brunei, Singapore e Thailandia, con notevoli differenze regionali – si diffuse sulla scia dell’islamizzazione dell’area, ma è da secoli la lingua di tutti, a prescindere dalla religione. Anzi, è proprio l’elemento che unifica una popolazione di 28 milioni di persone in cui i malay veri e propri sono il 60%, i cinesi il 25% e gli indiani una corposa minoranza. Non a caso per molti decenni la parola "Allah" è stata tranquillamente usata, per dire appunto Dio, in tutte le edizioni della Bibbia.Cinque secoli di storia che i tre giudici vorrebbero ora cancellare. Una sentenza assurda, ma in nome di una strategia di potere insidiosa. Il governo di coalizione guidato dal primo ministro Najib Razak, e centrato sull’Organizzazione Nazionale dei Malay Uniti (il partito, appunto, di Razak), cerca di compensare il progressivo calo di consensi con una politica di favore nei confronti dell’etnia malay. I malay, però, sono musulmani per legge, anzi, per quanto stabilisce l’articolo 160 della Costituzione, e sono sottoposti alla sharia, la legge islamica. Ecco quindi due conseguenze: da un lato, favorire i malay significa in automatico favorire l’islam, che peraltro in Malesia è già religione di Stato; dall’altro, l’islam viene usato per incentivare l’orgoglio etnico malay e in sostanza diventa uno strumento di propaganda con cui andare a caccia di voti.Purtroppo tutto questo avviene con l’Indonesia (il più popoloso Stato islamico al mondo) appena al di là del confine e con le Filippine cristiane (eppure insidiate da un aggressivo jihaidismo) non troppo lontane. Più in generale, con un mondo islamico che già di suo ribolle e che avrebbe semmai bisogno di unificatori e pacificatori, certo non di politici e giudici pronti a scovare anche nel vocabolario ulteriori pretesti per dividere e sobillare.