Inobliabile ciò che apprendiamo dello Sterminio. Dio ad Auschwitz (iI rosario di pane)
Quando, in una settimana qualsiasi, esce un articolo, un’intervista, una notizia su Auschwitz, la leggi, non puoi non leggerla, e finirà che non la dimentichi più. C’è sempre qualcosa di inobliabile in quel che apprendiamo sullo Sterminio. Quella fu la prova estrema del nostro non essere umani, del nostro cattivo rapporto con gli altri, del nostro non aver coscienza del dolore altrui. Ad Auschwitz tutto fu messo in crisi, la civiltà, la religione, la fede, l’idea di Dio. Ho un po’ di responsabilità in questo. Un po’.
La mia Conversazione con Primo Levi si conclude con Levi che dice: «C’è Auschwitz, dunque non può esserci Dio». Era una conversazione registrata, dopo quella frase seguì un lungo silenzio, finché mi parve che Levi non volesse aggiungere altro, e spensi la macchinetta. Era una conclusione lapidaria, incontrovertibile, disperata: Dio non c’è, se ci fosse Dio non ci sarebbe Auschwitz. Sto sempre attento con la massima sofferenza, quando leggo qualche ripresa del tema, voglio sempre vedere se vien fuori qualcosa di nuovo, di meno disperato, qualche barlume di luce. Se appare, lo guardo incantato. Non è notte buia dunque, non per tutti. Domenica scorsa questa speranza l’ho vista trapelare sul più diffuso dei quotidiani italiani, dove si ricordava che tra i reperti del campo di sterminio c’era un rosario fatto con la mollica di pane.
Un prigioniero aveva costruito quella sfilza di minuscole palline, rinunciando a mangiarle benché fosse minuscola la razione di pane che riceveva, per infilarle una dopo l’altra e avere in tasca questo strumento di preghiera. Per lui, pregare era meglio che mangiare. Un credente, che rimaneva tale nell’inferno. Le volte che sono stato ad Auschwitz non ho visto questo rosario. Non lo avrei mai dimenticato. Avrei pensato quante volte, morso dalla fame, quel prigioniero avrà tirato fuori di tasca quel minuscolo boccone, rinunciando a masticarlo e rimettendolo dov’era. Avere in tasca quel rosario di pane non gli placava la fame, ma gliel’acuiva. Tuttavia, ha resistito. E quella fila di bocconcini di pasta eccola qui, giunta fino a noi.
Questo bisogno di pregare è una prova della presenza di Dio nel lager? Certo che sì. Ma non mi piace che sia considerata la prova principale, la prova regina, la prova che il capo dei capi, Rudolf Hoess, aveva vinto su tutto e su tutti, eppure c’era chi gli resisteva ed era un singolo, sperduto insignificante prigioniero, che nascondeva in tasca un rosario di mollica, per pregare quando non era visto. Non è poco, certo. È molto. È il granellino di sabbia che inceppa gl’ingranaggi della macchina dell’annientamento, e la manda in tilt. Ma vorrei che si considerasse come la più grande prova della presenza del divino nel lager, a contrastare la forza diabolica del male, incarnata nel comandante supremo, era il comandante stesso, che infatti morì pentito e confessato e assolto. Ho già ragionato (e non sono stato il solo) su questa storia su questo giornale, ma mi fa soffrire l’idea che non se ne tenga conto. L’ufficiale delle SS bavarese Rudolf Hoess, comandante di Auschwitz, è forse il più grande criminale della storia, ma quando fu catturato e processato e condannato all’impiccagione chiese di potersi confessare e gli fu concesso.
La confessione fu osservata da lontano dalla folla del lager. Le fonti dicono che quelli che vedevano il comandante cinico e temibile e spietato, soprannominato l’Animale, inginocchiarsi e piangere e torcersi e chiedere perdono, avevano l’impressione che qualcosa di buono fosse entrato in lui, e lui fosse sostituito. Quando cominciò questa redenzione? Ebbe un inizio o fu sempre in atto? Il divino entrò in Auschwitz o non ne era mai uscito?