Opinioni

Il direttore risponde. «Dimentichiamoci di guidare, se...» Un inesorabile dovere di responsabilità

Marco Tarquinio martedì 28 luglio 2015
Gentile direttore, qualche volta bisogna dimenticare per non dimenticare. Mi spiego alla mia maniera.  Coda. Poche cose innervosiscono come la perdita di tempo. Lo senti scivolare via e pensi a quel caffè perso. Poi vedi il lampeggìo e capisci che forse c’è chi ha perso più di una pausa caffè. Danni, magari un’intera estate di lavoro per un mezzo nemmeno nuovo. Poi l’ormai rottame riverso. E senti l’attrazione morbosa per lo spettacolo del disastro altrui alzarsi come la marea fangosa dei fiumi. E poi... non c’è un poi. C’è un corpo, riverso, sotto un telo del colore della pace che somiglia troppo ad una resa. Un ombrellone variopinto da spiaggia a proteggere gli sguardi silenziosi di profani ammutoliti. Chi era? Giovane o vecchio? Figlio o padre? Forse una donna? L’incubo sarebbe se possibile ancora più insopportabile. L’invasione della morte, la scomparsa della vita nello stridore dei colori di Luglio. Quello che fa orrore è l’oblio. Quell’essere umano che un’ora fa progettava, pensava, amava e forse odiava come tutti noi, ora giace su duro asfalto. La morte ci appare così, sempre inutile e indegna. Pensiamo ai suoi cari e alla loro sofferenza. Vorremmo potere qualcosa anche quando tutto è irreversibile. Quanti morti sulle strade quest’anno? Una guerra invisibile eppure sotto i nostri occhi. Quante volte ne leggiamo sui giornali e chiudiamo gli occhi come un punto a chiudere un capitolo? Allora mi rivolgo a tutti noi: dimentichiamoci dei nostri telefonini quando guidiamo. Dimentichiamoci di guidare se abbiamo bevuto. Dimentichiamoci l’impazienza quando la vita nostra e degli altri dipende da noi. E non dimentichiamoci di loro. Perché tutto il resto non conta dopo. Non conta se siamo bravi, gentili, simpatici, belli o in orario. I morti e gli assassini non hanno aggettivi. John Tobia Bracco, Milano Lei pensa bene e scrive meglio, gentile amico lettore. Credo, perciò, e sinceramente lo spero, che lei viva bene anche il tempo che consumiamo in modo concitato e sempre più stressato sull’asfalto delle strade nella nostra 'civiltà del movimento'. Una mobilità per tanti versi benedetta e apparentemente dai costi del tutto accettabili. In realtà, invece, carissima in termini di vite umane. Non sono tra coloro che si entusiasmano quando nel nostro ordinamento, già stracarico di regole e aggravanti, si cominciano a ipotizzare nuove norme e fattispecie di reato. Ma da guidatore d’auto mi rendo conto di come un mezzo così utile sia anche un micidiale strumento da usare – la dico grossa – con felice responsabilità ovvero, anche se sembra l’esatto contrario, con timore e tremore. Per questo apprezzo l’impegno di coloro che in Parlamento e nella società civile si stanno battendo (è il caso di dirlo) da mesi per definire l’«omicidio stradale». Recentissimi avvenimenti e sentenze giudiziarie ci hanno messo davanti agli occhi e dentro il cuore nuovo sgomento per autentiche e incredibili assurdità nel valutare e sanzionare fatti di morte e di dolore accaduti sulle strade italiane, nel cuore stesso delle nostre città.  Dunque, ancora una volta dico che abbiamo tutti bisogno, e presto, di una regola che fissi un principio di responsabilità inesorabile per chi si mette al volante. Lei invoca: dimentichiamoci (di guidare) per non dimenticare (il valore della vita umana). E conclude: «I morti e gli assassini non hanno aggettivi». È così. Siamo noi, con la nostra vita in relazione con la vita degli altri, l’aggettivo che conta, che spiega, che rispetta e che salva.