Gentile direttore, qualche volta bisogna dimenticare per non dimenticare. Mi spiego alla mia maniera. Coda. Poche cose innervosiscono come la perdita di tempo. Lo senti scivolare via e pensi a quel caffè perso. Poi vedi il lampeggìo e capisci che forse c’è chi ha perso più di una pausa caffè. Danni, magari un’intera estate di lavoro per un mezzo nemmeno nuovo. Poi l’ormai rottame riverso. E senti l’attrazione morbosa per lo spettacolo del disastro altrui alzarsi come la marea fangosa dei fiumi. E poi... non c’è un poi. C’è un corpo, riverso, sotto un telo del colore della pace che somiglia troppo ad una resa. Un ombrellone variopinto da spiaggia a proteggere gli sguardi silenziosi di profani ammutoliti. Chi era? Giovane o vecchio? Figlio o padre? Forse una donna? L’incubo sarebbe se possibile ancora più insopportabile. L’invasione della morte, la scomparsa della vita nello stridore dei colori di Luglio. Quello che fa orrore è l’oblio. Quell’essere umano che un’ora fa progettava, pensava, amava e forse odiava come tutti noi, ora giace su duro asfalto. La morte ci appare così, sempre inutile e indegna. Pensiamo ai suoi cari e alla loro sofferenza. Vorremmo potere qualcosa anche quando tutto è irreversibile. Quanti morti sulle strade quest’anno? Una guerra invisibile eppure sotto i nostri occhi. Quante volte ne leggiamo sui giornali e chiudiamo gli occhi come un punto a chiudere un capitolo? Allora mi rivolgo a tutti noi: dimentichiamoci dei nostri telefonini quando guidiamo. Dimentichiamoci di guidare se abbiamo bevuto. Dimentichiamoci l’impazienza quando la vita nostra e degli altri dipende da noi. E non dimentichiamoci di loro. Perché tutto il resto non conta dopo. Non conta se siamo bravi, gentili, simpatici, belli o in orario. I morti e gli assassini non hanno aggettivi.
John Tobia Bracco, Milano Lei pensa bene e scrive meglio, gentile amico lettore. Credo, perciò, e sinceramente lo spero, che lei viva bene anche il tempo che consumiamo in modo concitato e sempre più stressato sull’asfalto delle strade nella nostra 'civiltà del movimento'. Una mobilità per tanti versi benedetta e apparentemente dai costi del tutto accettabili. In realtà, invece, carissima in termini di vite umane. Non sono tra coloro che si entusiasmano quando nel nostro ordinamento, già stracarico di regole e aggravanti, si cominciano a ipotizzare nuove norme e fattispecie di reato. Ma da guidatore d’auto mi rendo conto di come un mezzo così utile sia anche un micidiale strumento da usare – la dico grossa – con felice responsabilità ovvero, anche se sembra l’esatto contrario, con timore e tremore. Per questo apprezzo l’impegno di coloro che in Parlamento e nella società civile si stanno battendo (è il caso di dirlo) da mesi per definire l’«omicidio stradale». Recentissimi avvenimenti e sentenze giudiziarie ci hanno messo davanti agli occhi e dentro il cuore nuovo sgomento per autentiche e incredibili assurdità nel valutare e sanzionare fatti di morte e di dolore accaduti sulle strade italiane, nel cuore stesso delle nostre città. Dunque, ancora una volta dico che abbiamo tutti bisogno, e presto, di una regola che fissi un principio di responsabilità inesorabile per chi si mette al volante. Lei invoca: dimentichiamoci (di guidare) per non dimenticare (il valore della vita umana). E conclude: «I morti e gli assassini non hanno aggettivi». È così. Siamo noi, con la nostra vita in relazione con la vita degli altri, l’aggettivo che conta, che spiega, che rispetta e che salva.