Lettere. Dietro la diffusione di Halloween l'incapacità di una risposta sulla morte
Caro Avvenire,
in questi giorni si è festeggiato Halloween. Ci si chiede come anche in Italia, in pochi anni, questo “ evento” sia diventato così diffuso. Io ho una mia spiegazione che mi proviene dall’essere stata per anni insegnante alla scuola elementare: in nome della laicità, a poco a poco sono stati vietati i canti natalizi e i presepi, mentre, di contro, la festa di Halloween viene accettata e festeggiata ogni anno ovunque durante l’ora di inglese. Per tempo le insegnanti fanno imparare la canzoncina di “dolcetto e scherzetto” e non c’è classe che capillarmente non la impari. Accanto all’inglese passa quindi questa tradizione pagana che ormai è divenuta commerciale.
L’ora di inglese, certo, ci dice una maestra, e una tradizione che non essendo cristiana non urta alcuna delle categorie del politicamente corretto, sono fra i “volani” che hanno diffuso Halloween tra noi. Inoltre una commercializzazione massiccia, che fa del giro delle maschere e dei gadget un affare fiorente. È sotto gli occhi di tutti come questa festa sia diventata fra i bambini, e non solo, un imperativo. L’altra sera però, incrociando vicino a una scuola una folla chiassosa di ragazzini vestiti da vampiri e scheletri, facevo un’ulteriore considerazione. Non mi meraviglia che dei bambini, che per lo più grazie a Dio non hanno mai visto la morte con i loro occhi, siano affascinati dall’immaginario macabro dalla morte. Le stesse fiabe che la mia generazione ascoltava presentavano del resto orchi, streghe, mele avvelenate e principesse addormentate per un maligno incantesimo. L’oscuro, la paura fanno parte del mondo fantastico dell’infanzia, e non certo da ora. L’accento della festa di Halloween tuttavia è particolarmente incentrato sulla morte: zombie, teschi, bare popolano la notte del 31 ottobre con insistenza. Ciò che mi stupisce è non scorgere negli adulti un tentativo di dissuadere da questo immaginario lugubre. Mi fa, confesso, una certa impressione vedere madri che lasciano mettere a un bambino di pochi anni una maschera da teschio, o gli disegnano attorno alle orbite con un pennarello scure occhiaie da cadavere, o con il trucco gli dipingono il viso a imitare il pallore di un defunto. Che per i bambini sia un gioco innocente, posso capirlo. Stento a capire invece degli adulti che siano complici di questo gioco. Non hanno mai incrociato, quegli adulti, la morte, per non ritrovare in quel pallore il ricordo dolente di un lutto, di un distacco per sempre da una persona cara? Non hanno mai incrociato la morte, per sorridere di ossa e bare come si riderebbe di una maschera di Arlecchino? O forse, se gli adulti hanno questo sussulto interiore, tacciono per non rovinare il gioco dei figli, la loro spensieratezza. Anche della morte, pur di farli contenti, si può fare un gioco. Per contro, al letto dei malati gravi, ai funerali, nei cimiteri i bambini non vengano quasi più portati. La morte, quella vera, è l’ultimo tabù. Non la si mostra ai piccoli, forse temendo le loro domande, e le risposte che non sappiamo più dare. Fatichiamo a tramandare, sulla morte, la pace e la serenità dello sguardo cristiano, e la sua speranza. Per questo, la morte vera ai figli non la mostriamo. È rimasta quella giocosa, ma anche beffarda e sinistra di Halloween. Eppure è la capacità di stare di fronte alla realtà, tutta intera, nella sua drammaticità e anche nella sua profonda bellezza, quella che stentiamo a trasmettere.