Dietro la crisi della natalità,. La fuga dai legami e l’idea di consumare la vita
«Servono politiche lungimiranti. Non contrapporre natalità e accoglienza». Con queste parole Francesco ha sottratto i recenti Stati generali della natalità alla strumentalizzazione politico- mediatica che ne poteva venire: che tutto si riduca, per affrontare l’inverno demografico nella società italiana, a sostenere – e peggio ancora a difendere contro “altre” natalità, quelle dei migranti – la natalità “italiana”.
E che si tratti piuttosto di difendere e promuovere la natalità “in” Italia, che è altra cosa. Di fatto già avviene, se il 21,5 per cento dei pochi nuovi nati in Italia hanno un genitore non italiano (e per due terzi entrambi stranieri). Senza questi bambini, il nostro inverno demografico, sarebbe molto più rigido e fondamentalmente irrisolvibile quale che siano le politiche socioeconomiche di sostegno. È solo l’apporto della natalità da migrazione che può rendere credibile l’obiettivo posto da Gigi De Palo di 500mila nati nel 2033. Il resto è distonia cognitiva, prima ancora che politica o ideologica. “Avvenire” ha sintetizzato bene il punto titolando: «Vite da accogliere, tutte».
Ma poiché anche la natalità “immigrata” nei Paesi occidentali o occidentalizzati per stili di vita è in decrescita, anche se inferiore a quella “autoctona”, bisogna aver chiaro che delle due determinanti dell’inverno demografico non basta affrontare solo la prima, le inidonee condizioni socioeconomiche che disincentivano maternità e famiglia generativa. Occorre affrontare con franchezza anche la seconda determinante: lo “stile di vita”, i comportamenti e la mentalità che orientano la propria vita e la sua “autorealizzazione” (al di là di quanta effettiva autonomia e realizzazione vi ci sia). Una società che abbia uno stile di vita di individualismo ego-centrato è una società senza speranza in sé stessa e che quindi non genera; e affida sempre più il bisogno individuale di affettività non alla verticalità esistenzialmente impegnativa della filiazione, alla verticalità generativa, ma alla orizzontalità dei consumi affettivi chiusi in un presente senza futuro: fondamentalmente una pet terapy surrogatoria generale, che coinvolge anche gli altri umani, e domani grazie all’IA anche un po’ di robotica antropomorfizzata, a sostenere il vuoto di futuro che ci si è scavati con le proprie mani. Che le cose stiano così ce lo dice l’Istat: «Rimuovendo quel che ostacola il desiderio di generare e di costruire rapporti familiari e intergenerazionali stabili, secondo molte ricerche questo desiderio è presente in almeno due giovani su tre».
Sembra un punto di partenza confortante, ma lo è molto meno se si pensa al fatto che così un terzo della “base imponibile generativa” si sottrae alla contribuzione riproduttiva (la filiazione) alla società in cui vive. E per questo terzo – che, restasse costante nella mentalità delle prossime generazioni, disegna derivate demografiche drammatiche – avanza nelle nostre società la figura del “vivente termina-le”, di un individuo il cui progetto di vita ha il suo termine biologico ad quem in sé stesso.
A questa situazione hanno concorso non solo determinanti socioeconomiche, ma anche la disabilitazione sociale negli stili di vita della stabilità familiare e della generatività: la grande fuga – nei legami che si scelgono, ma che proprio per questo possono sciogliersi, nei legami orizzontali nel presente (anche il vincolo coniugale oggi) – dai legami che non si scelgono una volta che si siano istituiti, cioè dai figli, e che proprio per questo non si possono sciogliere; i legami verticali del “sangue”, che vanno al di là di noi e ci impegnano in una responsabilità sempre più avvertita come insostenibile, faticosa, non appagante, almeno al presente di una vita di autorealizzazione egoica che i suoi vuoti li stordisce in una quotidianità da movida.
Non ha aiutato, diciamolo con franchezza, la riduzione ideologica – ben al di là della rivendicazione femminista delle pari opportunità – della femminilità generativa (e già femminilità rischia di essere una parola pericolosa) a “vestale del focolare”, come abito imposto dai maschi da svestire. Così come la fuga dalla paternità di una figura maschile in crisi di identità, incapace di assumersi responsabilità “tradizionali” (famiglia, figli). È duro guardare in faccia la realtà: ma il modello di una vita da homo consumens che consuma la sua vita al mercato delle opportunità presenti consumandosi mentre le produce (la tipologia del prosumer) – la consuma consumandosi la propria vita mentre crede di produrla –, l’abbiamo inventato noi e noi dobbiamo smontarlo finché siamo in tempo.