Lavoro di squadra che si può fare. Depoliticizzare l’accoglienza
Che emergenza è quella che si ripete, ciclicamente, da oltre vent’anni a questa parte, qualche anno più intensa, qualche anno meno? Un’emergenza ritmata dai ritmi stagionali, dalle condizioni del mare, persino dalle previsioni meteo? Continuare a definire “emergenza” gli sbarchi sulle sponde meridionali italiane di profughi in cerca di scampo è un’impostazione ansiogena che in realtà parla della nostra persistente impreparazione, dell’insufficiente volontà di assumere gli arrivi per asilo come un tratto drammatico ma inevitabile del nostro tempo, dell’incapacità di approntare per tempo un sistema efficiente e ordinato di accoglienza. Ne ha parlato chiaramente don Marco Pagniello, direttore della Caritas italiana, nella sua intervista a questo giornale.
Quanto ai rituali rimandi alla mancanza di collaborazione europea, basti ricordare un dato: nel 2022 nell’Unione Europea sono state presentate 965.666 domande di asilo. In Italia, 77.195. Neppure l’8%. Per noi gli arrivi sono solo gli sbarchi dal mare, ma altri ne avvengono con diverse modalità. E anche chi arriva a piedi, in auto, in pullman, in aereo, se ne ha bisogno può chiedere asilo ed essere accolto, finché la sua domanda non venga valutata. Di conseguenza, altri Paesi accolgono molti più richiedenti asilo di noi, Germania e Francia in testa: rispettivamente 218.000 e 138.000 nel 2022.
L’appello reiterato all’emergenza suona politicamente attraente, perché assume volutamente o inconsapevolmente tre funzioni. Anzitutto, fa apparire il fenomeno come aberrante, uno sconvolgimento dell’ordine sociale che non può che generare paura e rigetto.
Secondo, serve ad alimentare la narrativa dell’Italia lasciata sola, addossando a Bruxelles la responsabilità dell’inadeguatezza nella gestione dei rifugiati. Terzo, consente di aggirare l’onere di predisporre procedure e risorse ordinarie, configurando il flusso di profughi come straordinario e da trattare con misure eccezionali. Emergenza nell’emergenza, è emersa ora la questione dei minori stranieri non accompagnati: 20.926 al 30 giugno.
Perlopiù maschi adolescenti, per il 45% diciassettenni, per il 25% sedicenni. In base alla Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, si tratta di una popolazione meritevole di particolare tutela: i minorenni non sono mai irregolari o, peggio, “clandestini”, ma sempre titolari di diritti. E l’Italia si è dotata di una legge particolarmente avanzata per accoglierli e proteggerli, la legge 47 del 2017, nota come legge Zampa. Si è così generato un paradosso: i genitori che desiderano immigrare, per lavorare e mantenere onestamente la loro famiglia, sono impediti di farlo, o spinti a ricorrere al pericoloso e incerto percorso dell’asilo, magari attraversando il mare. I figli invece, se sopravvivono al viaggio, hanno diritto a percorsi dignitosi di accoglienza e integrazione.
Questi percorsi, tuttavia, per rispondere adeguatamente alle diverse esigenze dei minori che arrivano senza una famiglia alle spalle, sono complessi e costosi. Di qui il tentativo di addossarne l’onere ai Comuni, che inevitabilmente protestano, e ultimamente l’intento di restringere la platea dei beneficiari cercando di negare loro la qualifica di minorenni. Tecniche ritenute “scientifiche” e dunque obiettive, come l’analisi radiografica delle ossa del polso, si sono però dimostrate fallibili, tanto che la legge Zampa parla di esami sociosanitari eseguiti da équipe interdisciplinari, la cui relazione finale deve riconoscere i margini di errore possibili.
Pur di ridurre i numeri e i costi, le nostre istituzioni rischiano di comprimere il rispetto dei diritti umani di persone particolarmente vulnerabili. Ci si dovrebbe domandare: per uno Stato democratico è meglio correre il rischio di accogliere qualche ragazzo entrato da qualche mese nella maggiore età, oppure quello di escludere qualche minorenne che ha magari avuto uno sviluppo fisico più precoce della media? Giusto invece riconoscere che lo Stato va aiutato nell’assicurare la tutela dei minori, e più in generale nel rispondere al compito (non l’emergenza) dell’accoglienza.
Ma qui non è efficace – è, anzi, controproducente - una pioggia di richieste locali, da singole prefetture a singoli soggetti del Terzo settore, per reperire strutture sul territorio. Serve invece, come suggerito, un tavolo nazionale di dialogo e collaborazione, che coinvolga chiese, enti locali, Ong, cooperazione sociale, fondazioni, volontariato. Svelenire il dibattito, de-politicizzare l’accoglienza, mettere al primo posto i diritti umani da proteggere: serve uno scatto, intellettuale e morale, da parte di tutti.