Opinioni

Roma Felix/7. Denunciati, perseguitati e uccisi: per i martiri un culto inarrestabile

Stefania Falasca sabato 28 settembre 2024

Le Catacombe di Santa Domitilla

In vista del Giubileo, un itinerario attraverso i luoghi della memoria cristiana a Roma. La Città Eterna felice e fortunata per la grazia della permanenza e del martirio di Pietro, il Principe degli apostoli e di Paolo, l’Apostolo delle genti. Quello che qui si propone è un itinerario che segue il filo d’oro che si dipana attraverso le vie regine di Roma, le sue case e le sue basiliche, i suoi vicoli disseminati di osterie e madonnelle, i suoi santuari, storie di persecuzioni e sorprendenti conversioni, con l’obiettivo di aiutare i “romei” di oggi a trarre dalla visita “ad Petri sedem” conforto e conoscenza della vita per la quale è vera l’immagine dantesca della « Roma onde Cristo è romano». Un aiuto a guardare le tracce che, nel tempo che scorre, sono rimaste, talvolta quasi impercettibili o nascoste, a testimoniare la vita di una storia di grazia che entra nella storia.

Fin dai primi secoli il culto dei martiri fu universale, ma nessuna Chiesa tributò forse più onori ai suoi santi quanto la Chiesa di Roma. Dopo la strage di cristiani di Roma voluta da Nerone in seguito all’incendio dell’anno 64, le persecuzioni nell’età imperiale assunsero modalità meno plateali. Nel 112, Plinio il Giovane, governatore della Bitinia, scrive all’imperatore Traiano per chiedere quale tipo di comportamento bisognava tenere nei riguardi dei cristiani, che erano ormai numerosissimi in Oriente. Il rescritto di Traiano contiene precise indicazioni: 1) i cristiani non devono essere ricercati dalle autorità 2) non si devono accettare a loro carico accuse anonime. Ma se pubblicamente denunciati, vanno perseguiti e se persistono nel confessare apertamente la loro fede, messi a morte. I Romani del resto erano sempre stati alquanto tolleranti nei riguardi dei culti stranieri a un patto però, che le popolazioni sottomesse rendessero culto anche agli dei di Roma, perché in un impero in cui il culto e la pratica religiosa si identificavano con la vita politica e civile, era intollerabile turbare la pax decorum su cui la potenza di Roma era fondata. Così ad esempio il prefetto dell’Egitto Emiliano, rivolgendosi al vescovo di Alessandria Dioniso, chiedeva durante il processo: «Chi impedisce dunque a voi cristiani di onorare questo Cristo insieme agli altri dei?». Era esattamente questa la condizione che poneva i cristiani in uno stato di rischio. E se la caratteristica delle persecuzioni del II consisteva tuttavia nella loro sporadicità, nel III secolo le cose cambiano.

L’imperatore Decio nel 249 costrinse tutti i cittadini dell’impero a compiere un pubblico atto di culto pagano per il quale veniva rilasciata una sorta di ricevuta. A Roma si formarono tre commissioni, tutte installate sul Campidoglio. Molti cristiani cedettero per timore, altri cercano di procurarsi il documento corrompendo i commissari, altri confessarono la loro fede e furono uccisi. Tra di loro papa Fabiano (236-250). Nel III secolo la Chiesa di Roma era già una grande presenza nel tessuto urbano, e aveva già suddiviso la città in circoscrizioni ecclesiastiche. Il vescovo insieme ai presbiteri e ai diaconi si trovavano a guidare una comunità numericamente ampia dove l’assistenza ai poveri aveva assunto i caratteri di una “economia” di carità parallela a quella dello Stato. Fu quello dunque un momento molto difficile per la Chiesa, per la prima volta sottoposta a una prova inconsueta. Ma Decio morì poco tempo dopo e i molti cristiani che non avevano avuto il coraggio di affrontare il carnefice, i cosiddetti lapsi (caduti), ottennero il perdono dalla Chiesa, che da quella persecuzione tutto sommato non ne uscì lacerata: « I nostri peccati ci avevano meritato molto peggio – scrive san Cipriano, vescovo di Cartagine – Dio nella sua bontà, ha diretto le cose in modo che tutto ciò che è avvenuto è stato piuttosto una prova che una persecuzione».

Pochi anni più tardi, la persecuzione di Valeriano vietò di entrare nei cimiteri e di tenervi riunioni. Fu indirizzata soprattutto a colpire i membri del clero. A molti poteva così accadere di morire in carcere, nelle celle della Prefectura Urbis, la stessa nella quale doveva essere stato incarcerato Pietro, nelle vicinanze dell’odierna basilica di San Pietro in Vincoli. Dall’Epistolario di san Cipriano, sappiamo che dare assistenza ai cristiani in carcere, vistarli e confortarli era considerato un compito speciale del clero e i vescovi consigliavano i fedeli di non andare in gran numero a far visita ai cristiani imprigionati. I carcerieri sapevano naturalmente che i visitatori erano cristiani e sacerdoti, ma finché non ci fosse stata una formale accusa contro di loro, li si lasciava andare e venire liberamente anche se si sapeva che erano cristiani e quindi colpevoli dello stesso reato del carcerato.

E' in questi anni che si sviluppa e si rafforza sempre più il culto liturgico dei martiri. Inizialmente il termine martyr si riferiva esclusivamente agli Apostoli, in quanto testimoni della vita, dell’insegnamento, della morte e resurrezione di Gesù Cristo. Il cambiamento nell’applicazione di questo concetto si verificò proprio alla metà del II secolo, quando con questo nome si iniziò a designare anche i cristiani condannati a morte a causa della fede in Cristo. Culto che fiorì spontaneamente intorno alle loro tombe e comportò l’uso di venerare le loro spoglie nelle catacombe, di farsi seppellire accanto ad essi per godere della loro protezione in attesa della resurrezione. L’antichità conobbe una venerazione dei santi sempre più indissolubilmente legata ai luoghi della loro sepoltura. Naturalmente i martiri furono più numerosi di quelli che venivano pubblicamente venerati dalla Chiesa. I loro nomi a volte si perdevano nella memoria, altre volte invece non si conosceva l’ubicazione del loro sepolcro perché le autorità non lo avevano reso pubblico. È il caso ad esempio dei martiri Pietro e Marcellino. Fu uno dei loro carnefici, divenuto cristiano molti anni più tardi a rivelarlo a papa Damaso (366-384) e così ai due giovani testimoni della fede potè essere edificato un sepolcro degno della loro gloria nelle catacombe sulla via Labicana, che ancora oggi portano il loro nome. Questo avvenne soprattutto nell’ultima grande persecuzione iniziata da Diocleziano (303-311) – che fiaccato dalla crisi politico-militare dette impulso alla pubblica devozione verso gli dei pagani, alla cui protezione era affidata la fortuna di Roma – durante la quale furono ordinale esecuzioni sommarie, a volte di gruppi numerosi di cristiani.

Il primo catalogo liturgico dei martiri romani, la Depositio martyrum, che comprendeva circa un centinaio di nomi, risale al 354. Dopo l’editto di Milano prolungato da Costantino nel 313 le catacombe continuarono a essere luoghi di sepoltura, ma divennero soprattutto mete di pellegrinaggio dei fedeli di Roma per la venerazione dei testimoni della fede. Dal V secolo, a partire dal sacco di Roma compiuto dal re dei Visigoti nel 410, i luoghi di sepoltura extraurbani diventeranno sempre meno sicuri e saranno via via abbandonati, finché nel IX secolo, le ossa dei martiri saranno definitivamente trasferire nelle chiese di Roma, all’interno delle mura della città. Nel corso del Medioevo si perse quasi del tutto la memoria di molte catacombe. Anche se gli Itineraria ai luoghi sacri di Roma continuavano a indicarle – i pellegrini si recavano nelle chiese erette sopra di esse, come Sant’Agnese o San Sebastiano. Solo a partire dal XV secolo alcuni si spinsero a scendere nelle antiche gallerie.

Fu san Filippo Neri a riscoprirne il loro valore recandosi spesso presso le catacombe di San Sebastiano. Nel 1578 sulla via Salaria, venne casualmente alla luce una catacomba ben conservata. Si tratta del cimitero ritrovato a Porta Salaria presso la vigna Sanchez che venne denominato «anonimo di via Anapo». Secondo il documento conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana venne scoperto da alcuni cavatori di pozzolana. Rifiorirono così le ricerche e gli studi. Antonio Bosio, pioniere della ricerca archeologica nel sottosuolo dell’Urbe raccolse il frutto delle sue fatiche in quella Roma sotterranea che fu pubblicata postuma nel 1629. Ma affinché le catacombe romane tornassero alla luce in tutta la loro ricchezza bisognerà attendere la metà del XIX secolo, con l’intraprendete entusiasmo di un giovane archeologico, Giovanni Battista De Rossi, e l’intelligente lungimiranza di un Papa. Quella di Pio IX.