Evviva le radici. Quelle che consentono all’erba di crescere allegra. Senza radici, l’erba non ha futuro. Strapparla dal suolo non significa renderla più libera ma, semplicemente, ucciderla.Evviva le radici, dunque. Quelle che ieri Benedetto XVI è andato a cercare, contemplare, respirare ad Aquileia. Le radici delle genti del Nordest. Ma anche del credente Joseph Ratzinger: le stesse radici cristiane di Monaco di Baviera affondano lì, sulle rive dell’Adriatico, all’estremità occidentale del grande ponte con l’Oriente. Andare alle radici, ossia alle origini, per saper inventare il futuro, «per una nuova evangelizzazione, per consegnare alle generazioni future l’eredità preziosa della fede cristiana».Tutti abbiamo bisogno di radici. La cultura popolare, ancora una volta, fornisce esempi lampanti. Per riscattarsi, acquisire un’identità e dare il proprio originale contributo alla vita degli Stati Uniti, il popolo nero deve risalire a ritroso lungo la via crucis della schiavitù fino alle terre d’Africa, e il libro di Alex Haley,
Roots ('Radici'), divenuto negli anni Settanta un fortunato sceneggiato televisivo, è la prova di questa insopprimibile esigenza. E in Italia? Viene in mente, d’acchito, «la casa sul confine dei ricordi» cantata da Francesco Guccini (ancora Radici, canzone e album), là dove «ricerchi le tue radici, se vuoi capire l’anima che hai». Le radici sono un intreccio che risale fino ad avvolgerti: «E te li senti dentro quei legami / i riti antichi e i miti del passato». Radici di cui non sempre è semplice decifrare il senso. L’erede può faticare a comprendere quale sia l’eredità, eppure «le tue radici danno la saggezza / e provi un grande senso di dolcezza». Sono le radici di chi si sente preso per mano e amato.È un canto laico, eppure intriso di cristianesimo essenziale. Ieri Benedetto XVI esortava veneti, friulani e giuliani: «Custodite, rafforzate, vivete questa preziosa eredità. Siate gelosi» di essa. Fino a coniare un ossimoro, figura retorica poco frequente nel magistero della Chiesa: il Vangelo va portato «con delicata fierezza». Con orgoglio, ma senza arroganza. Con garbo, ma senza debolezza. La misura della «delicata fierezza» è racchiusa nelle radici più profonde, quelle della Lettera a Diogneto, risalente ai primi passi della comunità cristiana. I cristiani stanno «in mezzo agli altri uomini con simpatia (...), tesi a costruire insieme a tutti gli uomini di buona volontà una 'città' più umana, più giusta e solidale». La tentazione, specialmente in questi tempi di materialismo rampante, è duplice. Adeguarsi, nell’ansia – comprensibile, ma non giustificabile – di farsi accettare. Annacquare, tagliandone le radici, la novità cristiana per divenire i gregari, o gli inutili idioti, di culture tanto apparentemente vincenti quanto sostanzialmente fragili e passeggere. Oppure contrapporsi arroccandosi nella propria cittadella fatta di certezze, fierissimi senza delicatezza alcuna, ringhiosi nel timore di apparire arrendevoli.Il cristianesimo e i cristiani sono per tutti. Le loro radici non sono 'proprietà privata' e gelosa, ma un bene offerto a chiunque lo apprezzi, una risorsa per l’intera società. Con questo spirito il Papa ieri invitava a non farsi travolgere da amarezze e pessimismi e chiusure. Il ponte non va tagliato ma rinforzato, non stretto ma allargato. Le radici sono patrimonio dell’Italia intera, dell’Occidente, del mondo tutto quanto. E chi, cristiano, si assume responsabilità politiche – il Papa ha esortato per l’ennesima volta un impegno in tale direzione – questa ricchezza dovrà mettere in gioco. Fiero, e delicato assieme.