Opinioni

Il tema eluso nel dibattito elettorale. Debito, l'ora del coraggio

Francesco Gesualdi venerdì 2 febbraio 2018

Il convitato di pietra di questa campagna elettorale è il debito pubblico. Se ne parla poco e di sfuggita, ma tutti sanno che è la pietra d’inciampo di qualsiasi promessa elettorale. Che si tratti di riduzione fiscale, di diminuzione dell’età pensionabile, di reddito di cittadinanza, nessuna promessa sarà praticabile senza un’idea per ridurre gli interessi che ogni anno ammontano a una cifra pari al 10% del gettito fiscale. Fino a oggi la parola d’ordine è stata "pagare a ogni costo" e si sono susseguiti governi così uguali fra loro da avere permesso a Mario Draghi di dire che ormai si governa col pilota automatico. È la politica dell’austerità, con effetti così devastanti sulla vita dei cittadini che nessun governo vuole assumerne la paternità. Meglio scaricare la colpa sulla Commissione Europea, dipingendola come il gendarme cattivo che costringe tutti ad agire contro la propria volontà. Ma sappiamo che in Europa certe decisioni sono prese all’unanimità.

Del resto come la pensino i governi europei sul debito pubblico, emerge anche da come lo narrano. Da un punto di vista morale ripropongono la visione tedesca secondo la quale il debito è una colpa, come si evince dalla sua stessa struttura linguistica, che nella lingua di Goethe indica debito e colpa con lo stesso termine shuld. Da un punto di vista sociale perpetuano la favola secondo la quale ci siamo indebitati per vivere al di sopra delle nostre possibilità. Tesi non casuale: un popolo convinto di essersi inguaiato per garantirsi lussi immeritati, si piega con maggior facilità a ogni sacrificio.Occorre un’operazione verità sul debito pubblico, a partire da tre punti. Il primo: non è vero che siamo indebitati perché abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità. Dal 1992 l’Italia è in regime di avanzo primario, ossia di risparmio, perché i servizi e gli investimenti resi dallo Stato ai cittadini sono inferiori al gettito fiscale. Complessivamente i risparmi realizzati dal 1992 al 2016 ammontano a 768 miliardi. Ciò nonostante il debito ha continuato a salire fino all’astronomica cifra di 2.250 miliardi perché i risparmi non sono stati sufficienti a coprire l’intera spesa per interessi. Su un ammontare complessivo di 2.038 miliardi, relativi a tutto il periodo, ben 1.270 sono stati pagati con nuovi prestiti, mettendoci nella trappola infernale del debito che alimenta se stesso. Il secondo punto da sottolineare è che il debito l’hanno pagato i più poveri come mostrano la crescita delle disuguaglianze e della povertà. Il terzo punto è che il nostro debito è diventato così grande da esporci a due rischi di segno opposto, ma di uguale potere lesivo. Da una parte la morte per strangolamento nel caso attuassimo il Fiscal Compact che ci chiede di dimezzare il nostro debito in 20 anni. Dall’altra la morte per dissanguamento nel caso permettessimo a debito e interessi di continuare ad alimentarsi a vicenda come è successo fino a ora.

Nonostante la drammaticità del momento, i governanti cercano di rassicurarci dicendoci che esiste un modo per procurarci le risorse necessarie a saldare gradatamente il nostro debito pubblico senza sacrifici per nessuno. Si chiama crescita e si ottiene come premio se solo sappiamo mettere in atto le riforme che poi significano riduzione dei salari, del welfare e dei diritti. Ma nonostante le riforme, le variabili che possono condizionare la crescita sono troppe, per cui il taglio ai servizi continua a rimanere l’arma di riserva usata da tutti i governi per aggiustare i conti all’ultimo momento. E di rassicurazione in rassicurazione il nostro debito cresce, i servizi peggiorano, l’esercito dei poveri si ingrossa. Per questo, in ogni ambito, cresce il fronte di chi chiede di ridurre il debito attraverso vie non convenzionali come il ripudio della parte illegittima, la rinegoziazione della parte più onerosa, il trasferimento di una certa quantità alla Bce.

Bestemmie per i neoliberisti, ma quando il debito compromette la funzione sociale dello Stato, smette di essere una questione finanziaria e diventa una questione politica, addirittura etica. Che fare: privilegiare l’interesse dei creditori o la dignità dei cittadini? Nel 2004, quando nella tormenta c’erano i popoli del Sud del mondo, la Commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite sancì che «l’esercizio dei diritti fondamentali non può essere subordinato all’applicazione delle politiche di austerità e di riforme economiche legate al debito». Più recentemente, tramite l’Evangelii gaudium, Papa Francesco ha esortato «il ritorno dell’economia e della finanza a un’etica in favore dell’essere umano». Considerato che il mondo galleggia su un mare di debiti, tre volte più grande di quanto l’umanità produce annualmente, sarebbe conveniente per tutti procedere a un Grande Giubileo, affinché non succeda, come ammonì Neemia, che i creditori stessi perdano tutto.

Con questo articolo avviamo un dibattito sul tema del debito pubblico che continuerà a più voci e con diverse posizioni.

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