Opinioni

Pandemia. Debito e conversione ecologica, per l'Africa riscatto possibile

Giulio Albanese mercoledì 10 marzo 2021

Ngozi Okonjo-Iweala, economista e politica nigeriana, direttrice della Wto dal febbraio 2021

A causa della pandemia, il continente africano sembra rivelasi sempre più una 'variabile' non facilmente decifrabile nel contesto dell’economia mondiale. Il tema è complesso ed esige di sgombrare il campo dagli stereotipi, in un senso o nell’altro. Infatti, da una parte vi sono coloro i quali ritengono che l’Africa continui ad essere una terra a sé stante, separata dalla storia del mondo, in cui gli eventi non avrebbero una trama riconoscibile, suscettibile di approfondimenti geopolitici o di teorizzazioni economico-sociali. In una battuta, per coloro che sono affetti dal pregiudizio, tutto sarebbe metaforicamente avvolto dentro la sottile polvere dell’Harmattan, il vento del deserto che avvolge la realtà dei fatti, rendendola grigia e indistinta.

Di converso, vi è un altro filone di pensiero che invece alimenta la retorica altisonante di coloro che considerano il continente nel suo complesso il futuro del mondo, il locus per eccellenza delle opportunità imprenditoriali in cui il capitale internazionale può ottenere la migliore remunerazione di sempre. Anche in questo caso, occorre affermare grande moderazione non foss’altro perché con le sue svariate materie prime e la sua forza lavoro l’Africa soffre comunque – e non da oggi – il drammatico cortocircuito, acuito a dismisura da molteplici interferenze straniere, tra le élite dominanti e la cosiddetta società civile. Un deficit relazionale che i lenti processi di democratizzazione e partecipazione avviati in questi anni non sempre sono ancora riusciti a riparare. Partendo da queste premesse, è fondamentale operare una sorta di decentramento narrativo, ossia tentare di guardare a quello che sta realmente avvenendo, dal punto di vista degli africani, nel perimetro spaziotemporale imposto dal coronavirus.

Un rovesciamento salutare, se vogliamo approdare con piena consapevolezza all’appuntamento del dare e del ricevere auspicato dal compianto statista senegalese Léopold Sédar Senghor. Ecco che allora emergono certamente le fragilità sistemiche, ma anche le innegabili potenzialità. Proprio in questi giorni, nella regione congolese del Sud Kivu, è stata rinvenuta una miniera d’oro a cielo aperto. La scoperta sarebbe avvenuta casualmente ad opera di un manipolo di contadini con il risultato che, trattandosi di un filone aurifero molto superficiale, si è scatenata la classica febbre dell’oro con centinaia di persone d’ogni rango che si sono riversate sul sito in questione. Purtroppo, dopo poco tempo, le forze dell’ordine hanno circondato la zona e preso il controllo della miniera considerata formalmente proprietà demaniale. Nel frattempo pare che siano in corso delle trattative per assegnare il lotto di terra a qualche compagnia mineraria straniera. È un esempio emblematico di quanto sta avvenendo in piena pandemia nel settore orientale della Repubblica Democratica del Congo (Rdc).

Questa parte dell’Africa, venuta alla ribalta con la recente uccisione dell’ambasciatore italiano Luca Attanasio, di Vittorio Iacovacci, il carabiniere della sua scorta, e del loro autista Mustapha Milambo è la metafora delle contraddizioni in cui versano molti Paesi africani. Per inciso, il Pil pro-capite dell’ex Zaire è di circa 450 dollari, uno tra i più bassi al mondo, e l’indice di sviluppo umano è 0,433, che colloca la Rdc al 176° posto nella classifica mondiale. Quindi, nonostante il Paese disponga di inenarrabili ricchezze – legname pregiato, rame, cobalto, coltan, diamanti, oro, zinco, uranio, stagno, argento, carbone, manganese, tungsteno, cadmio, cassiterite e petrolio – la gente continua ad essere afflitta dalla miseria. Con il risultato che trattandosi di commodity che fanno gola alle grandi potenze industriali si acuisce la corruzione e lo sfruttamento dissennato di queste risorse naturali.

Come se non bastasse, le agenzie di Rating, nel silenzio più assoluto della stampa internazionale, hanno declassato lo scorso anno, le economie dei mercati emergenti, molti dei quali africani, a seguito della pandemia. Si tratta di un fenomeno con un impatto fortemente speculativo, sia per quanto concerne l’aumento del costo dei prestiti, come anche in riferimento all’indebolimento dell’offerta di capitale da parte degli investitori stranieri. Sta di fatto che sono dieci i paesi africani che hanno subito il declassamento: Angola, Botswana, Camerun, Capo Verde, Repubblica Democratica del Congo, Gabon, Nigeria, Sudafrica, Mauritius e Zambia. Poiché le agenzie di Rating hanno un enorme potere di influenzare le aspettative del mercato e le decisioni di allocazione del portafoglio degli investitori, i declassamenti hanno minato i fondamentali macroeconomici dell’intero continente, riducendo il valore delle obbligazioni sovrane come garanzia nelle operazioni di finanziamento delle banche centrali e spingendo i tassi di interesse in alto.

Con il risultato che si è registrato un aumento del costo del debito. Ad esempio, lo Zambia – che vanta un debito pubblico del 120% del Pil – è stato il primo Paese a entrare in crisi lo scorso ottobre. Gli analisti lanciano l’allarme anche sul debito dell’Angola (120,3%) e della Repubblica del Congo (104,5%). Nel complesso, a causa del covid-19, la Banca Mondiale prevede che il debito medio dell’Africa Subsahariana raggiungerà un picco del 67,4% del Pil nel 2021. Si è innescata così nel continente una recessione senza precedenti che sta penalizzando fortemente l’economia reale, in primis l’agricoltura e in generale le attività imprenditoriali.

Di fronte a questo scenario, vi sono dei segnali di speranza, tra questi la recente nomina di una donna africana ai vertici dell’Organizzazione mondiale del commercio (la Wto), l’economista nigeriana Ngozi Okonjo-Iweala. Prendendo lo spunto dagli effetti recessivi scatenati dalla pandemia sull’economia mondiale, ha già fat- to intendere la necessità di avviare un nuovo corso negli scambi commerciali, precisando che nel post-covid non si potrà tornare al 'business as usual'. Da questo punto di vista, le sue capacità negoziali, l’approccio pragmatico a problemi concreti e politici e la sua spiccata propensione per le dinamiche multilaterali rappresentano una garanzia per superare la sfiducia che in questi anni si è sedimentata nei confronti dell’Omc.

Ecco che allora, in una congiuntura estremamente problematica per il commercio internazionale, in cui però proprio dall’Africa giungono segnali in controtendenza – come dimostra, ad esempio, la nascita dell’African Continental Free Trade Area (Afcfta) – la nomina di Okonjo-Iweala potrebbe favorire un inedito protagonismo ai Paesi in via di sviluppo, in particolare a quelli africani. L’Afcfta, almeno sulla carta, riguarda infatti un mercato di 1,3 miliardi di persone ed ha un valore di 2,5 trilioni di dollari. Se verrà gestito in modo perspicace, con l’indispensabile sostegno internazionale, potrebbe rilanciare le economie africane anche nell’ambito del Green New Deal tanto caro all’Europa.

Considerando poi che, in tutto questo ragionamento, all’Italia spetta quest’anno la presidenza del G20, sarebbe utile fare tesoro della proposta 'Release G20', formulata dalla rete Link 2007, che associa alcune importanti organizzazioni della società civile italiana dedite alla cooperazione internazionale per lo sviluppo e all’azione umanitaria. Esse auspicano la conversione del debito in valuta locale, un’operazione che potrebbe consentire la realizzazione di progetti sia di resilienza che di sviluppo umano e sostenibile in settori chiave e su precisi obiettivi dell’Agenda 2030 dell’Onu, coinvolgendo sia il settore pubblico sia quello privato. Tale indirizzo, qualora venisse applicato, potrebbe in parte sopperire alla contrazione delle rimesse dall’estero e degli aiuti internazionali allo sviluppo, favorendo le comunità e le fasce più bisognose della popolazione, in aree sia urbane sia rurali, soprattutto in Africa. Servono, in effetti, idee e proposte, con sano realismo, per affermare un riscatto all’insegna della globalizzazione dei diritti.