Opinioni

La Francia svolta e ora vuole trattare. Se nel «De Bello Libico» manca la resa a Parigi

Giorgio Ferrari giovedì 14 luglio 2011
«Et quoniam sit Fortunae cedendum, se illis offerre», e poiché bisognava cedere alla sorte, egli si metteva a disposizione dei proconsoli. Sono le asciutte parole con cui Giulio Cesare nel De Bello Gallico descrive senza alcuna enfasi la resa di Vercingetorige. Ma se per caso Nicolas Sarkozy le rammemorasse oggi, 14 luglio, festa nazionale francese, esse suonerebbero a lui amarissime: perché al posto di quel gallo che si consegnava vinto al condottiero romano dopo l’assedio di Alesia, l’inquilino dell’Eliseo avrebbe preteso di vedere nientemeno che Muammar Gheddafi, il rais libico, vinto e debellato da una guerra-lampo giocata tutta dal cielo che liberava la Libia dal giogo quarantennale di un satrapo brutale, e riassegnava alla Francia quella supremazia militare e morale sull’Africa da tempo sdilinquita e dissipata, magari con l’aggiunta di qualche buona commessa petrolifera.Ma nella parata sugli Champs-Élysées non sfilerà davanti alle insegne dell’Armée la testa del colonnello libico come Sarkozy aveva sognato, bensì il feretro dei suoi sogni di grandezza (pardon, di grandeur), assieme a un imbarazzante cambio di rotta.Ad annunciarlo sono state le parole del ministro della Difesa Gérard Longuet, che qualche giorno fa a sorpresa (forse anche all’insaputa del suo presidente) ha detto: «Gheddafi può anche restare, in un’altra stanza nel suo palazzo, con un altro titolo». Come dire che il ricorso alla forza (che l’Italia non ha mai caldeggiato né invocato, allineandosi non senza un’iniziale perplessità alla risoluzione dell’Onu) che Parigi si è affrettata a cavalcare quattro mesi or sono, si è rivelato un’arma spuntata, incapace di risolvere la guerra. E anzi, di fronte a questa evidenza nient’altro che un pesante capitolo di spesa (finora l’avventura libica è costata 160 milioni di euro), sia pure approvato a schiacciante maggioranza bipartisan dall’Assemblea Nazionale, che ha votato per il rifinanziamento della missione.Non occorre sfogliare il Canard Enchainé, il velenoso ma informatissimo settimanale satirico francese, per cogliere il malessere e l’imbarazzo che aleggia attorno all’Eliseo e il malumore che serpeggia fra le forze armate. «Siamo pronti a negoziare senza condizioni», ha dichiarato a Le Figaro il primo ministro libico, Baghdadi al-Mahmoudi, sottintendendo che Gheddafi resterà da parte, a guardare, senza potere di intervento, guadagnandosi l’applauso del primo ministro francese Fillon.Inguaribile vanità dei francesi: sono stati i primi ad aprire il fuoco, ora sono i primi a volerlo spegnere. Si parla, non a caso, di contatti diretti fra Parigi e Tripoli, come se la soluzione politica fosse un affare privato fra le due capitali. «Se ci fosse un contatto francese con il regime di Gheddafi, sarei contrario a prescindere. Se lo facesse l’Onu sarei favorevole. L’Italia non segue questa linea, perché sarebbe contraria alla risoluzione 1973 dell’Onu», si affretta a precisare il ministro degli Esteri Frattini. Cui segue la voce del Consiglio Nazionale di Transizione: nessuna soluzione politica è possibile finché Gheddafi rimane al suo posto.Grande, come si vede, è la confusione sotto i cieli, ancorché presi in custodia dagli aerei della Nato. Una cosa sola sembra certa: a differenza di quella tunisina, la primavera libica si sta trasformando in una rovente estate di incertezze, un pantano che rischia di somigliare sempre più a certi teatri iracheni o afghani (giusto ieri altri cinque militari francesi sono morti in un agguato), dai quali è difficile uscire così com’è stato semplice entrarvi e dove l’opzione militare non pare più essere la scelta vincente. Ma vi è, a nostro parere, una seconda certezza: in questa fiera di scelte sbagliate, di rodomontate militari, di fughe in avanti e di ingloriose marce indietro, la Francia non sembra davvero avere avuto rivali. Anche questa, a suo modo, è una forma di grandeur.