Opinioni

Omotransfobia. Ddl Zan: dissenso ragionevole, conflitto non insormontabile

Stefano Semplici martedì 18 maggio 2021

Ci sono due vie per tentare di approvare il ddl Zan senza che ciò diventi l’imposizione della volontà di una maggioranza ristretta (ammesso che ci sia). La prima via ha già guadagnato consensi. Si tratterebbe di portare fino in fondo la logica delle norme-manifesto: tacere sulle questioni più controverse e accettare di pagare il prezzo di una formulazione ad applicazione flessibile (per i critici semplicemente generica e ambigua), pur sapendo che potrebbero esserne date interpretazioni fra loro incompatibili. Si pensi solo all’esempio del diritto alla vita riconosciuto a ogni individuo, senza specificare che cosa si intenda appunto per “individuo”.

Queste parti del testo non sono affatto inutili, perché indicano comunque un orientamento, avviano o consolidano un percorso, impongono di dare ragioni per azioni e comportamenti che non siano riconosciuti da tutti coerenti con il principio indicato. Seguire tale via, nel caso del ddl Zan, significherebbe rinunciare all’articolo 1, alle sue controverse definizioni di “genere” e “identità di genere” e al loro altrettanto controverso sganciamento da sesso e orientamento sessuale. Significherebbe rinunciare anche alla pretesa di fare di quelle definizioni e di quello sganciamento il contenuto di iniziative da organizzare nelle scuole (l’articolo 7 lascia intendere di ogni ordine e grado), con il prevedibile risultato, nella migliore delle ipotesi, di un’impennata di assenze dall’esito tutt’altro che reciprocamente inclusivo. I proponenti potrebbero però non accettare queste rinunce, perché – e l’argomento ha una sua forza – la circolarità di uguaglianza e non discriminazione è un pilastro della Costituzione (l’articolo 3) e dunque di un’educazione civica a essa ispirata. E questo impone chiarezza nella definizione di “chi” è riconosciuto uguale.

La seconda ipotesi è forse ancora più esposta all’obiezione di “svuotamento” e può apparire provocatoria, ma è utile a illuminare il limite e il rischio più profondi di ogni tentativo di tradurre norme-manifesto in norme del Codice penale, soprattutto quando ci sono gravi disaccordi sul modo di intenderle e il perimetro della fattispecie è difficile da tracciare con la nettezza che sarebbe indispensabile. Una discriminazione è una differenza di trattamento, ma non ogni differenza di trattamento è una discriminazione. Lo diventa quando non è supportata da una “giustificazione oggettiva e ragionevole”, per citare la Corte europea dei diritti dell’uomo. Ma chi è il giudice di questa oggettività e soprattutto di questa ragionevolezza?

Sappiamo tutti qual è il punto del contendere e sarebbe ipocrita aggirarlo. Non c’è nessun “concreto pericolo” che a una persona, in Italia, venga vietato l’ingresso in un ospedale o l’iscrizione all’università in ragione della sua appartenenza etnica o religiosa. E neppure dei suoi orientamenti sessuali. Non è in discussione la necessità di intervenire con decisione ogni volta che, per gli stessi motivi, si tentasse di limitare o addirittura rifiutare l’accesso a un albergo o a un ristorante, a un lavoro, ai servizi socio-assistenziali. Nelle competizioni sportive continueranno le polemiche sulla differenza dei premi per uomini e donne (diversità di trattamento discutibile e discussa), ma non sarà la definizione di genere del ddl Zan a consentire a chi è maschio per sesso biologico di partecipare alle gare femminili (che sono distinte per motivi considerati oggettivi e ragionevoli). Ci sono però, in Italia come altrove, persone che ritengono che queste differenze non debbano contare nulla quando si tratta del diritto a costituire una famiglia e dei connessi doveri, dell’adozione e dell’affido, dell’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita. E ci sono altre persone che ritengono invece che queste differenze, magari solo in questo ambito, possano (debbano) contare.

L'articolo 4 è superfluo (c’è già l’articolo 21 della Costituzione a garantire la libertà di espressione) e la garanzia in esso offerta non è del tutto priva di ambiguità. La Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione, nella sentenza n. 2742/2015, definisce quello di «istigazione» e «propaganda » un reato «di pura condotta, o di pericolo astratto, a nulla rilevando che l’azione abbia prodotto degli effetti». Propagandare un’idea significa, per la Corte, «divulgarla al fine di condizionare o influenzare il comportamento o la psicologia di un vasto pubblico ». Si parla di razzismo e nell’art. 604bis del Codice penale la propaganda di idee fondate sull’odio razziale o etnico viene distinta dall’istigazione a commettere atti di discriminazione, alla quale si aggancerebbe l’aggiunta proposta nel ddl, ma non è anche e forse in primo luogo condizionando e influenzando che si istiga? Nel vocabolario online Treccani, istigare è considerato sinonimo di stimolare, indurre ad azione riprovevole, illecita, delittuosa. Si può escludere che venga riconosciuta l’idoneità a determinare «il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti» anche in assenza di un nesso diretto, concreto, attuale con essi?

Per decidere del rapporto fra la libertà di manifestazione del pensiero e la pari dignità degli esseri umani, inoltre, è decisivo il contesto, ma il bilanciamento di questi princìpi, anche nella sentenza che ho citato, è affidato al giudice di merito, che «sarà chiamato di volta in volta a valutare nel caso concreto ». Siamo sicuri che questa incertezza non condizionerà la possibilità di sostenere con assoluta libertà e serenità opinioni diverse da quella dominante sulle leggi che riguardano le materie che ho ricordato? È giustificato il timore che tali opinioni possano finire per essere accettate come espressione di un legittimo pluralismo delle idee solo a condizione che rimangano di nicchia, non influenzino il comportamento di un vasto pubblico e non ci sia il concreto pericolo di produrre un cambiamento?

Per rispondere senza equivoci a queste domande occorrerebbe forse integrare con una formula di questo tipo l’aggiunta proposta al primo comma, lettera a), dell’articolo 604-bis: «La libera espressione di convincimenti e opinioni sulle differenze di sesso, genere, orientamento sessuale e identità di genere non può mai essere considerata comportamento discriminatorio o istigazione a comportamenti o atti discriminatori quando è riferita a differenze di trattamento che riguardino il matrimonio o altre forme di riconoscimento di convivenze more uxorio, l’adozione, l’affidamento e il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita». La stessa precisazione non dovrebbe naturalmente essere aggiunta alla lettera b), perché è chiaro che nessuna fessura può essere aperta per la legittimazione della violenza.

Come ho già detto, può apparire una semplice provocazione. Se non è della piena uguaglianza anche in questi ambiti che si parla, la forza del principio di non discriminazione è in gran parte perduta. Non si risolve però il problema eludendolo. Proprio per la sua potenza, l’uso dello strumento del diritto penale richiede grande cautela quando c’è il rischio che abbia l’effetto, anche solo indiretto e non voluto, di condizionare il confronto su temi tanto delicati e restringere il perimetro del dissenso considerato ragionevole con una forza diversa da quella del libero convincimento delle coscienze.

Docente di Etica sociale e Bioetica, Università di Roma Tor Vergata