Il referendum. Dall'Europa lacrime di gioia e di coccodrillo
L’esultanza dei populisti e il tiepido rimpianto tedesco La sconfitta di Matteo Renzi e le successive dimissioni del premier italiano hanno prodotto in Europa due differenti categorie di lacrime: quelle di gioia e quelle di coccodrillo. Le prime sono le più facili da individuare. Quelle di Marine Le Pen, per cominciare: Il 'No' che ha frantumato l’illusione della riscrittura della Costituzione «aggiunge – dichiara la leader del Front National – un nuovo popolo alla lista di coloro che vogliono voltare le spalle alle assurde politiche europee che sprofondano il continente nella miseria». Analisi molto tirata per i capelli, ma si sa, ciascuno adopera interpreta i fatti altrui pro domo sua. Anche l’ex leader dell’Ukip Nigel Farage (antieuropeista, ma che si è guardato bene dal rinunciare allo scranno all’Europarlamento nonostante la Brexit: pecunia non olet e l’ex trader di materie prime lo sa bene...) piega l’esito del referendum italiano a suo comodo: «Una martellata all’euro e all’establishment». Immaginiamo che qualche lacrimuccia di giubilo sia stata spesa anche dalle parti di Budapest, dove la fermezza di Renzi nel reclamare politiche migratorie più solidali e meno dominate dagli egoismi nazionali era andata più volte di traverso al primo ministro Orbán (non più 'pecora nera d’Europa' dopo l’endorsement che gli ha riservato il presidente eletto Donald Trump).
Non a caso nell’astensione del governo italiano sul voto al bilancio comunitario c’era un diretto riferimento all’Ungheria: «Ci sono Paesi – aveva detto Renzi – che non rispettano gli accordi e con i nostri soldi tirano su i muri». E non occorre essere degli indovini per scorgere dietro il silenzio di ghiaccio del rimanente del Gruppo di Visegrad (polacchi, slovacchi cechi) la medesima compiaciuta soddisfazione per la (momentanea?) uscita di scena del premier italiano. Ma anche gli spagnoli di Podémos danno dell’esito del referendum italiano una bizzarra e quasi offensiva interpretazione, apparentando la sconfitta di Renzi a quella dell’estremista austriaco Norbert Hofer come espliciti segnali dell’avanzata «dell’Europa della gente». Fin qui le lacrime di giubilo. Per intercettare le altre occorre invece maggior perspicacia e perizia. La Germania più di tutti provvede a fornirci un vasto quanto diseguale ventaglio di voci: da quella preoccupata del ministro degli Esteri Frank-Walter Steinmeier (inquieto sul futuro dell’Unione) a quella accorata del leader della Spd Sigmar Gabriel, che si sente orfano di Renzi, fino a quello della cancelliera: forse – non ce ne voglia Frau Merkel – la più consumata interprete delle lacrime di coccodrillo nel suo stringato e rattristato cordoglio per la sconfitta del primo ministro italiano. Ma più ancora del roseo distacco della cancelliera giganteggia su tutti il sorriso ineffabile del ministro delle finanze Wolfgang Schaeuble: lui, il 'killer' di Varoufakis, l’uomo che piegò la Grecia, che umiliò Tsipras, che stroncò sul nascere la rivolta spartachista di Syriza ieri esortava alla calma e alla fiducia nei mercati e nelle risorse del popolo italiano. Schadenfreude, magnifico sostantivo germanico ad indicare il piacere provocato dalla rovina altrui? Forse no. L’arcigno ex uomo-ombra di Helmut Kohl divenuto poi difensore dell’eccellenza tedesca, e da anni strenuo guardiano della rettitudine della governo probabilmente già rimpiange Renzi, nonostante i ripetuti conflitti.
Certo, un premier italiano più malleabile fa sempre comodo e non è un mistero che certe 'monellerie' di Renzi finivano spesso per scompigliare l’agenda dei vertici europei. Non è un mistero tuttavia che un’Europa disunita e fragile si trova ad affrontare la più insidiosa delle sue crisi, aggredita dal vento dell’anti-politica e dalla rivolta contro le élite, cominciata in sordina anni fa con la nascita di piccoli e poi sempre più grandi partiti euroscettici e quasi sempre dall’impronta populista e culminata con la doppia rivolta popolare britannica (l’ormai famigerata Brexit, che ha travolto l’establishment inglese, umiliato i partiti tradizionali e inferto all’Unione Europea uno schiaffo indimenticabile) e quella americana (dove un partito stremato, senza idee e senza un candidato realmente presentabile è stato travolto dall’onda lunga di un outsider che messo sottosopra l’intero quadro politico, compreso quello del suo stesso partito). Il ripetersi di questi segnali – e quello italiano in parte certamente lo è – inquieta profondamente il mondo occidentale, incapace di capire per tempo quanto succedeva sotto ai suoi occhi, cieco e sordo – per primi i mass media – di fronte al rumoreggiare della protesta. Eppure l’unica via possibile è proprio quella di ricucire, ricostruire, rimodellare la casa comune scossa dalle divisioni, dagli egoismi e dalla colpevole miopia di molti governi nazionali. La lezione della grande protesta che ha colpito le due sponde dell’Atlantico non può che essere questa. Spazio per altre avventure non ve n’è, in Italia, come altrove.