I segnali oltre le minacce. Tra Russia e Ucraina qualcosa (forse) si sta muovendo
La vecchia regola di tutti i conflitti, quella che parlarsi per minacciare è comunque meno peggio che ignorarsi, è tornata in vigore anche tra Russia e Ucraina. È vero, la lettera dei discorsi è suonata minacciosa. Ma nella sostanza c’è stato comunque qualcosa di diverso. Tra il G7 italiano e la Conferenza svizzera per la pace, Vladimir Putin ha cercato di rubare la scena con la sua proposta: smettiamo di sparare se l’Ucraina abbandona le quattro regioni finora occupate in parte dai russi, rinuncia alla Nato e l’Occidente ritira le sanzioni. Tutto inaccettabile, ovvio. Ma quello che contava era l’affermazione del Cremlino che la proposta era mirata non a una tregua ma alla fine della guerra. Concetto poi ribadito, con le stesse modalità (per dir così, mano di velluto in guanto di ferro), dal ministro degli Esteri Lavrov: se ci chiamano a una seconda Conferenza ci andremo ma non fermeremo la guerra mentre trattiamo.
Qualcosa di simile è avvenuto sul fronte opposto. In Svizzera 80 Paesi (tra cui tutti i 27 Ue) sui 92 presenti hanno firmato la dichiarazione finale. E se la Conferenza era cominciata con l’appello del presidente Zelensky a «costringere con ogni mezzo la Russia alla pace», le conclusioni sono invece risultate più morbide e, soprattutto, hanno ribadito come «il raggiungimento della pace richieda il coinvolgimento e il dialogo tra tutte le parti. Abbiamo quindi deciso di intraprendere passi concreti in futuro... con un ulteriore impegno dei rappresentanti di tutte le parti in causa». Più che costringere, dunque, coinvolgere la Russia.
Anche se poi gli ucraini, a partire dal ministro degli Esteri Kuleba, hanno ribadito che si rassegneranno a parlare con i russi (cosa che si erano vietati con un decreto di Zelensky dell’ottobre 2022) ma non accetteranno nemmeno l’ombra di un ultimatum.
Dopo due anni e mezzo di una guerra che non sarebbe mai dovuta cominciare e che nessuno potrà mai vincere, insomma, hanno tutti torto e tutti ragione. È nel vero Jurij Ushakov, consigliere di Putin, quando afferma che «il risultato più evidente della Conferenza in Svizzera è che tutti hanno capito che la pace non si può fare senza la Russia». Ma gli ucraini sanno bene che il Cremlino non può dettare condizioni. E poi ci sono le realtà inoppugnabili maturate nel frattempo. L’Ucraina ha affrontato l’invasione russa con 44,1 milioni di abitanti e ora ne conta (secondo stime che escludono i territori occupati) solo 28. Più la guerra dura, meno è probabile che gli ucraini rifugiatisi all’estero (4,2 milioni solo nella Ue) tornino in patria. Per non parlare delle distruzioni e del disastro economico. La Russia ha drogato la propria economia con la produzione bellica, pagando la “dose” con l’inflazione, il debito pubblico e la spesa per l’import più alti di sempre. Può un Paese di quelle dimensioni reggersi costruendo bombe e carri armati, “prodotti” fatti per essere distrutti? Può continuare a impegnare le energie umane migliori nell’industria degli armamenti? E se anche si appropriasse dei territori finora occupati, si sentirebbe più sicura confinando con un’Ucraina mutilata ma, a quel punto, membro a pieno titolo della Nato?
Il momento per la pace è adesso. Speculazioni e rinvii possono solo produrre ulteriori sofferenze, perché nessuna svolta radicale è alle viste sul campo di battaglia. Né si prospettano particolari rovesci in campo economico. L’Occidente può sostenere l’Ucraina a tempo indefinito. Ma le sanzioni occidentali non hanno fatto crollare la Russia e non intimoriscono più i russi: un recente sondaggio del Levada Center di Mosca rileva che il 68% di loro dice di essere “poco” o “per nulla” preoccupato dalle decisioni di Usa e Ue.
Alla luce di queste considerazioni, che certo non suonano nuove alle cancellerie e descrivono una situazione comunque cristallizzata da molto tempo, ci dovremmo forse chiedere perché una guerra che nessuno può vincere non sia ancora sfociata in una trattativa per interromperla. Il problema è che qualunque azione diplomatica deve basarsi sul principio del bastone e della carota. Minacciare qualcosa e insieme offrire qualcosa. In questi due anni e mezzo abbiamo visto solo un forsennato agitarsi di bastoni, senza alcuna offerta per l’avversario. Dare una lezione alla Russia, spezzare le reni alla Nato. Ma come ha scritto Aleksander George, grande studioso della diplomazia internazionale, più alta è la pretesa più è bassa la probabilità che venga accolta. E i risultati sono sotto gli occhi di tutti.